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Stavolta al referendum voto Sì, ecco perché. Ma state calmi

Non me ne importa un granché di questo referendum. Anche se alla fine mi appassiono di tutto, quindi mi è capitato anche di discutere con qualche amico sui social, e devo dire che mi dispiace molto più che per le altre discussioni: non ne vale la pena, davvero. Scrivo quindi questo post un po’ per dovere: ho deciso di votare Sì, so che voterò in modo diverso da tanti amici stavolta (per quanto mi riguarda ovviamente rimarremo amici lo stesso), e almeno un paio di argomenti li vorrei chiarire, anche perché non mi piace sentire bugie, e ne sto sentendo un po’ troppe – il che non significa che non sappia che tantissimi voteranno No in perfetta buona fede.

  • Non è uno sfregio della Costituzione. Lasciate perdere Terracini e Calamandrei. Il numero dei parlamentari è già cambiato nel 1963, rispetto a quello deciso alla Costituente, ok, è stato aumentato in seguito all’aumento della popolazione ma direi che questo significa che non è un dogma di fede. Nel frattempo sono stati istituiti i consigli regionali (che condividono col Parlamento il potere legislativo) e il parlamento europeo, il che ha oggettivamente aumentato la rappresentanza. C’è stato anche un discreto progresso tecnologico che ha consentito di accorciare le distanze e ha dato nuove possibilità di ascoltare e rappresentare i territori. Il taglio dei parlamentari infatti era nel programma di tutti i partiti che ho votato negli ultimi 30 anni, e per la verità anche di quasi tutti gli altri. Prevengo l’obiezione: non solo a condizione di essere accompagnato da altre riforme, anche da solo. Il Pd in particolare aveva una proposta di taglio numericamente identica a quella oggetto del referendum (400 deputati e 200 senatori): sotto forma di proposta di legge costituzionale è stata depositata al senato nel 2008, tra i primi firmatari la capogruppo Anna Finocchiaro e il suo futuro successore Luigi Zanda, oggi capifila del No (mah): era quindi una posizione del partito a tutti gli effetti. A quella proposta di legge faceva riferimento il programma di Italia bene comune sottoscritto da Bersani nel 2013. Dopo le elezioni, nei famosi “Otto punti per il governo del cambiamento”, Bersani proponeva addirittura il dimezzamento dei parlamentari.
  • Meglio un taglio “lineare” di una riforma “organica”. Ma questo è un taglio “lineare”!, dicono i tanti (troppi) per i quali nel 2016 “bastava un Sì” e adesso guai a chi tocca la Costituzione (magari dopo aver votato la riforma in Aula). Non hanno ancora imparato la lezione del 2016: che presentare agli italiani una riforma monstre, con dentro cose condivisibili e altre orripilanti, come un unico pacchetto cotto e mangiato e come un referendum su un’intera politica e magari su una persona e un’esperienza di governo, oltre a essere alla fine una scelta autolesionista è anche, come hanno scritto in tanti, un uso manipolatorio dell’articolo 138. Una riforma, un quesito, un Sì o un No. È esattamente così che si riforma la Costituzione rispettandola, e rispettando i cittadini e la democrazia.
  • Non è la buona politica contro il populismo. Per favore, basta complessi di superiorità verso i 5 Stelle. Non l’hanno inventata loro la metafora della “Casta”: citofonare a tanti editorialisti, direttori e grandi firme che magari ora sostengono il No, ma guarda caso. Non l’hanno inventata i grillini l’antipolitica: se volete leggere la storia di un secolo di antipolitica, a volte anche tragica, leggete L’Italia nel Novecento di Miguel Gotor. Più modestamente: non raccontiamoci balle. Dopo il ventennio berlusconiano, quando il Cavaliere proponeva che i capigruppo avessero le azioni come i manager delle aziende e se la vedessero tra loro, dopo i manifesti del #bastaunsì che chiedevano il voto “per ridurre il numero dei politici”, rendiamoci conto che la diffidenza verso il parlamento non è una colpa da rinfacciare agli altri ma un problema da affrontare anche in casa nostra. Il punto semmai è come, e con chi. Lo dico a chi condivide con me una sensibilità molto diffusa a sinistra e nel mondo cattolico: per difendere, cosa sacrosanta, il parlamento possiamo dire sempre no a tutto? E magari rimanere da soli, avallando l’idea (falsa!) che alla stragrande maggioranza degli italiani della Costituzione non importi più nulla? Siamo sicuri che il Parlamento e il suo modo di lavorare vadano difesi in blocco senza nemmeno che si possa alludere alla necessità di cambiare qualcosa? Siamo sicuri che il parlamento come è oggi rappresenti i territori? Siamo sicuri che il parlamento lavorando come lavora oggi dia un’immagine comprensibile di politica buona ed efficiente? Siamo sicuri che perdendo questa occasione di riformare il suo modo di lavorare, dopo un’eventuale vittoria del No ne avremo un’altra migliore? Finalmente liberi dai cattivoni grillini, magari. E con chi?
  • Non è la difesa della democrazia rappresentativa contro le scorciatoie della democrazia diretta. Anzi. Chi pensasse di difendere l’autorevolezza del parlamento bocciando una proposta votata da più del 90 per cento dei presenti in aula (e dell’80 per cento degli aventi diritto) forse ci dovrebbe pensare ancora un pochino. La verità è che questo referendum ha una storia poco edificante: raccogliere le firme necessarie fu avventurosissimo, le adesioni sparivano e ne ricomparivano altre, fino all’ultimo giorno utile. Al di là della buona fede dei singoli, quello che votiamo è un referendum figlio di calcoli strumentali e tutti politici sulla durata del governo e della legislatura, su una questione sulla quale il parlamento si è già espresso con chiarezza inoppugnabile. Una vittoria del No sarebbe imbarazzante, non tanto per i 5 Stelle o per Conte ma per il parlamento italiano. Altro che antipolitica.
  • I correttivi. La riforma Fornaro è calendarizzata e non c’è un solo partito che non la condivida. Io non ho ragione di dubitare che sarà approvata, correggendo una distorsione di rappresentanza che ha già reso instabile il senato in tutte le ultime legislature, a prescindere dal numero dei suoi componenti. Sulla legge elettorale proporzionale, che pure è calendarizzata, ci sono un po’ di problemini invece: sono stati forse i 5 Stelle a crearli? Vi aiuto: no. In ogni caso quante possibilità ci sono che dopo un’ipotetica vittoria del No qualcuno metta mano all’impresentabile Rosatellum? Più o meno possibilità che si riesca a rispettare l’accordo di maggioranza dopo una vittoria del Sì secondo voi?
  • La compagnia. In un referendum non la scegli, e finisce sempre che voti allo stesso modo di gente lontanissima da te. Però è più forte di me, vedere le squadrette social del #bastaunsì schierate a favore del No con gli stessi argomenti, la stessa bava alla bocca e (spesso) gli stessi bersagli del 2016 a me fa venire voglia di starne il più lontano possibile. E non venite a dirmi che non li vedete.

Post scriptum. Leggo che alla Direzione nazionale del Pd Nicola Zingaretti, facendo sua una proposta di Luciano Violante uscita oggi su Repubblica (che avevo accuratamente evitato di commentare), propone al Pd “di accompagnare la campagna per il sì al referendum con una raccolta di firme per il bicameralismo differenziato. Sarà un modo, pur con scelte diverse che ci saranno, di unire il Pd”. Caro Zingaretti, ci manca solo di vincolare il Sì a una riproposizione della riforma Boschi, già strabocciata dagli elettori come del resto la precedente riforma del bicameralismo perfetto nella versione Berlusconi. Spero tu non abbia deciso di farmi cambiare idea.

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Dove nascono i Briatore, e perché sono di destra. Sul Covid e non solo

È un po’ difficile non commentare, per il rispetto dovuto a una persona con un problema di salute, la nemesi di Briatore, ricoverato (forse) per Covid e con la responsabilità per decine di dipendenti del Billionaire positivi al tampone dopo un’estate passata – oltre che a divertirsi in discoteca e sui campi di calcetto, rigorosamente senza mascherina – a inveire contro politici e virologi che avrebbero “terrorizzato il paese” imponendo regole contro il contagio e limiti alla movida che comunque, da lui, non venivano rispettati. È un po’ difficile non parlarne dicevo, ma proviamo almeno a farlo seriamente e non a colpi di battute e tweet.

Da un tweet però volevo partire, anzi da una domanda intelligente di Antonio Polito – “Ma quando è successo che è diventato di destra negare il Covid e di sinistra credere nel Covid?” – e da una risposta assai condivisibile di Tommaso Labate – “Praticamente da subito, da quando si è capito che col Covid diritto alla salute e libertà d’impresa stavano per entrare in conflitto, senza mezzi termini. È la prima volta dalla caduta del Muro che la spaccatura destra/sinistra è così nitida ovunque”.

La risposta di Tommaso è lucida e va dritta al punto, e per come è formulata meriterebbe già così una bella riflessione sui nuovi doveri e i nuovi spazi che si aprono a sinistra nel mondo post pandemia, dove tutti gli schemi già scricchiolanti degli ultimi decenni, a partire dalla stessa definizione di “nuovo” e di “vecchio”, dall’idea di Stato diventata quasi ostaggio dei sovranisti, all’appropriazione della parola “libertà” da parte delle destre liberiste, appaiono ormai roba da buttare a tutti tranne che a qualche tifoso nostalgico di stagioni finite.

Tuttavia non so se questa labatesca osservazione così limpidamente “marxiana“, che individua nel conflitto tra diritto alla salute e libertà di impresa il discrimine del negazionismo, basti a spiegare una questione che ha anche aspetti culturali e alla fine mi pare perfino ideologici.

All’origine dell’atteggiamento di chi parte rifiutando la mascherina e arriva nei casi più estremi a negare, con diverse sfumature di grottesco, l’esistenza del virus a me pare ci sia innanzitutto una gigantesca questione di individualismo. Una difficoltà prepolitica, psicologica, perfino antropologica di introiettare l’idea che si può, e in questo momento addirittura si deve, cioè è proprio necessario, vivere prendendosi cura dell’altro, quello a noi vicino e quello che incontriamo per caso, esattamente allo stesso modo e per lo stesso motivo. Non è, questo, un giudizio morale. Non sto dicendo che chi è di destra sia più “cattivo” o chi è di sinistra sia più “buono”. Dico che c’è una capacità di sentirsi parte di una collettività, di una comunità, una capacità di “farsi prossimo” a sinistra che oggi serve molto, e che a destra non c’è. Non è un caso che tutte le destre del mondo – da Johnson a Trump, da Bolsonaro a Salvini – abbiano clamorosamente toppato l’approccio al problema, e non siano stati, non siano a tutt’oggi, in grado di lanciare il messaggio necessario: proteggetevi, proteggiamoci. Non potevano. Alla lunga questo diventa un altro bel discrimine, nuovo, per orientarsi e capire cosa è di destra e cosa è di sinistra: sarà prezioso.

E però, ultimo punto, in Italia a questo atteggiamento individualista che ha accomunato tutte le destre del mondo se n’è aggiunto un altro che definirei, a rischio di offendere qualcuno, razzismo culturale. Ed è qui che arrivo al Billionaire, e ai tanti casi che per carità di patria non nomino di irresponsabilità trasmessa dalla classe dirigente e dalle elite economiche con messaggi – dalla fuga dal resort della quarantena al rientro con l’aereo privato di papà per evitare il tampone – che alla fine hanno come sottinteso questo: ma secondo voi uno come me può farsi dire come vivere da un ragazzo di sinistra e da un avvocato di Foggia? Il non appartenere a nessuno dei “giri” giusti è un peccato d’origine che in tanti non perdonano a questo governo, e che spiega tanto di quello che ci succede di leggere ogni giorno. Forse, al di là dei limiti delle persone e delle formule, che ci sono sempre, è un vero problema democratico. Ma dovevo scriverlo, mannaggia, con più diplomazia.

Borgen, capire la politica guardando una serie danese

A molti pare che piacciano le serie tv che raccontano la politica in modo caricaturale e grottesco, tipo House of cards, e poi va a finire che producono i Renzi e i loro adoratori. A me invece piacciono le serie tv che la politica la raccontano com’è davvero, nel bene e nel male, e aiutano anche a capire cos’è, e aiutando a capire cos’è la politica aiutano un po’ a capire tutto. Come Borgen, che ho appena finito di vedere su Netflix. Ma anche – potrei dire – come West Wing (ma non parlerò di West Wing. West Wing è una fede, e ho troppi amici e potenziali lettori che ne celebrano il culto, la sanno troppo a memoria più di me, e insomma non oso, anzi già ho sbagliato a osare il paragone. Ma sappiate che se non avete visto West Wing, o non lo ricordate, o volete far finta di smettere di far finta di capire le citazioni, lo potete finalmente vedere su Amazon Prime). Ma dicevamo di Borgen.

Ecco, la visione di Borgen dovrebbe essere obbligatoria nelle redazioni dei giornali, ma anche per certi commentatori politici da social che ci tengono a ricordarci ogni giorno di non avere idea di cosa sia la politica, soprattutto adesso che diventa necessario come il pane un corso di aggiornamento su come funziona il proporzionale. Dovrebbero vederlo certi ex presidenti della Repubblica convinti che non si può dare l’incarico a chi non dimostra prima di avere la maggioranza in parlamento, cioè che non esistano i governi di minoranza e la possibilità di cercare i voti in aula su ogni provvedimento (sì lo so che il sistema è diverso, ma questa è la recensione di una serie non un manuale di diritto parlamentare, e comunque che aspettiamo tra tante riforme sceme a mettere anche noi la sfiducia costruttiva non si sa). Dovrebbe studiarlo quel politico di Twitter che senza aver mai fatto politica in vita sua ogni giorno dà lezioni a tutti su cosa sia la politica, e che qualche giorno fa ha scritto che la politica è “mantenere la parola”. Perché invece “la politica è persuasione”, come ho imparato anni e anni fa da Ciriaco De Mita. La politica (non il trasformismo, che ne è l’aspetto deteriore) è processo, è movimento, è creare le condizioni per il cambiamento, grazie ai rapporti di forza ma anche all’intelligenza degli avvenimenti, che ti consente di avere l’idea più forte, e vincente, come ho imparato da Aldo Moro ma anche un po’ da Birgitte Nyborg.

Birgitte in questa storia, girata all’inizio degli anni 10 (ma Netflix ha comprato i diritti e ora sta girando la quarta serie, che uscirà forse l’anno prossimo) è la prima donna primo ministro in Danimarca. Borgen, che significa “castello”, è il nome con cui i danesi chiamano il palazzo di Copenaghen dove hanno sede sia il governo che il parlamento. La politica danese è come la nostra, però a volte più civile, però a volte più feroce. E quindi, senza spoiler, ho da dire alcune cose.

– il proporzionale. Birgitte è leader dei Moderati, un partito “di centro” che a dispetto del nome non ha molto a che vedere con alcuni politici qui precedentemente evocati. Per esempio sulla gestione dell’immigrazione o sulla politica estera è molto a sinistra dei Laburisti, vuole riformare il welfare ma per conservarlo, ha un’impostazione molto ambientalista e contraria agli slogan anti tasse e agli aiuti a pioggia alle imprese. La potrei votare. Sapendo che poi lei potrebbe andare al governo con i Laburisti o con i Liberali, o anche stare all’opposizione. A seconda della possibilità di far contare le sue idee, su cui mi ha chiesto il voto. Nei limiti del possibile, facendo accordi e compromessi E decidendo di volta in volta qual è il limite. Capito come funziona, o come dovrebbe funzionare?

– il partito Laburista. Non è certo una serie di destra, Borgen. Ma il partito Laburista è il peggio. Un disastro. Un partito forte, da cui non si può prescindere. Ma con dirigenti spregiudicati in guerra uno con l’altro, perennemente alla ricerca affannosa e autoreferenziale del suo equilibrio interno, senza spinta propulsiva, con un complesso di superiorità non più giustificato dai risultati elettorali e di governo, non in pace con il suo passato, con dirigenti lontanissimi da chi dovrebbero rappresentare. Sembra il Pd, per quanto senza la cura Renzi. Il che mi fa pensare che il problema sia anche più grosso di come ci sembra, ahimé.

– la stampa. Interessante, molto. Per certi aspetti il rapporto col potere è più consociativo che da noi, per altri più libero e rispettoso. In ogni caso, meno sbracato. Anche qui, compromessi sì, rinuncia ai principi no. Ma con realismo. Se arrivate fino all’ultima puntata della terza serie segnatevi il dialogo tra il leader ormai spodestato dell’estrema destra (una specie di Bossi col fisico di Depardieu) e l’ex spin doctor di Birgitte su chi sia più cinico tra i politici e i giornalisti. Volevo applaudire.

– la scissione. Non voglio dire niente. Ma c’è da imparare molto su come fare una scissione e poi vincere le elezioni, da Borgen. Però anche su come raccontarla, considerandola come fatto politico e non personale, rispettandone le ragioni, chiamando i partiti col loro nome e non “ex” qualcosa. Insomma dovremmo prendere appunti in tanti, io per prima eh. Del resto, “Alcuni cambiano partito in nome dei loro principi. Altri cambiano principi in nome del partito”: e questo è Churchill, e l’ho imparata qui sta frase, anche se mi poteva servire prima.

– Phillip. E comunque se Phillip dovesse sentirsi solo, io ci vado a cena volentieri, altro che quell’inglese.

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I furbetti del bonus Iva e il teorema della minigonna. (No, non è colpa del governo)

Sbagliare tutto, dalla prima all’ultima riga. Scrivono alcuni commentatori, con la tipica inclinazione isterica che, spiace constatarlo, caratterizza gli antipatizzanti di questo governo, costantemente offesi dalla sua stessa esistenza per fatto personale, che se i cinque parlamentari cosiddetti “furbetti” hanno preso i soldi del bonus iva di marzo, è perché una norma sbagliata glielo consentiva. Quindi non sarebbero loro “il problema”, ma appunto chi ha scritto la norma. 
È un po’ il teorema della minigonna: se ti capita è colpa tua che te la sei cercata. E però è tutto sbagliato. Provo a dire alcune cose.
– non c’è in Italia una legge che consente alle partite iva di chiedere 600 euro allo Stato senza averne bisogno. C’è stata, a marzo, una norma temporanea che ha consentito questo, pensata per far fronte a un’inaudita emergenza nel suo momento più drammatico, con i negozi e gli uffici chiusi all’improvviso e i numeri dell’epidemia che galoppavano. Prevedere tetti, requisiti e controlli per evitare qualche migliaio di “furbetti” avrebbe allungato i tempi e lasciato sul lastrico milioni di persone che lo erano veramente. Come spiegava Mario Draghi, bisognava “agire subito”. Fare la norma in quel modo è stata una scelta: in economia si chiama trade off, io sono abbastanza ignorante ma l’ho imparato dal tweet di un economista. Poi ho controllato su Treccani.it: “In economia, relazione funzionale tra due variabili tali che la crescita di una risulta incompatibile con la crescita dell’altra (…). Si parla di trade off quando si deve operare una scelta tra due opzioni ugualmente desiderabili ma tra loro contrastanti”. Cioè tra velocità ed equità, in questo caso. Decidere diversamente si poteva, certo, ma avrebbe significato tempi più lunghi e “burocrazia”. Si può non essere d’accordo, ma per me è stata una scelta giusta e in quel momento – ripeto, in una norma temporanea varata a marzo – anche “di sinistra”.
– chi ha chiesto il bonus iva non ha violato alcuna norma, quindi. Tuttavia non è moralmente riprovevole solo quello che è reato. È da infami chiedere allo stato soldi di cui non hai bisogno in un momento di emergenza nazionale, non serve una norma che lo sanzioni (credo peraltro, anzi mi risulta, che molti italiani lo abbiano pensato e si siano regolati di conseguenza). Vale per tutti i “furbetti”, che stiano in parlamento o altrove. E non vale solo per le partite iva. Ricordo, a fronte di cinque bonus da seicento euro per complessivi tremila euro, che risultano due-virgola-sette-miliardi-di-euro percepiti indebitamente da aziende che hanno continuato a far lavorare i loro dipendenti. Non lo dico per giustificare i cinque piottari, ma per mantenere il senso delle proporzioni, anche rispetto a un’agenda mediatica su cui non voglio aggiungere altro, qui.
– se uno si comporta in modo immorale, dare la colpa a chi non glielo ha impedito è immorale. La colpa, l’immoralità, è sua. Chi dice il contrario è un populista che fa (cattiva, e diseducativa) politica.
– tuttavia se sei parlamentare c’è un problema in più. Che aumenta l’inaccettabilità e giustifica la sanzione (morale) che ne deriva. Tu devi esercitare il tuo mandato con disciplina e onore: non è un’opinione, è la costituzione (articolo 54). Devi avere il senso del tuo mandato, del tuo ruolo e delle tue responsabilità. Non mi piacciono le gogne, ma ha senso voler sapere chi sono questi parlamentari. Perché noi cittadini abbiamo il diritto di dare su di loro un giudizio morale, e politico. Non nelle piazze, non in tribunale: alle elezioni.
– lasciate in pace i consiglieri comunali. Non è che è tutto uguale, non sono “tutti uguali”. Un consigliere comunale che percepisce un gettone da cento euro può benissimo trovarsi in difficoltà economiche con la sua attività, e ricorrere a un bonus a cui ha pienamente diritto. Il resto è antipolitica da strapazzo.
– lasciate perdere il referendum sul taglio dei parlamentari. Non c’entra assolutamente niente.

Gori sbaglia. Non serve un altro segretario, ma un altro Pd

Pubblicato su Tpi.it

La sortita di Giorgio Gori contro la leadership del Pd, prima ancora che a obiezioni di merito, si presta alle critiche circa la sua sgradevolezza. Per inesperienza o goffaggine (se non per intenzione, ma non credo), il sindaco di Bergamo ha avanzato le sue critiche a NIcola Zingaretti dapprima nel corso di un dibattito in streaming ospitato da un altisonante studio legale d’élite (non propriamente un appello al popolo delle primarie), poi le ha riprese in un’intervista a Repubblica che ospitava, nella pagina successiva, un’altra intervista che annunciava la candidatura di Ivan Scalfarotto a nome di Italia viva e degli altri partiti centristi più o meno figli di scissioni dal Pd a presidente della regione Puglia “contro Emiliano”. Quelle critiche hanno lasciato così l’impressione che dentro le mura del Pd qualcuno abbia lasciato un cavallo di legno pieno di soldati pronti, a un segnale convenuto, a uscire nella notte e a incendiare la città di concerto con chi l’assedia da fuori. Bruttino.

La debolezza degli argomenti di Gori però è anche di merito. Non è chiarissimo infatti come si possa rimproverare al Pd di essere fermo più o meno ai valori del suo disastroso risultato del 2018, “il peggiore di sempre” dice giustamente Gori, riproponendo di fatto la linea politica che ha portato il Pd a quella sconfitta: sostanzialmente il blairismo dei tardi anni 90, radicale sui diritti civili e liberale su finanza e impresa, come reinterpretato fuori tempo massimo dal Pd negli anni del renzismo.

Il senso politico, tuttavia, è chiaro. Senza dichiarare ambizioni di leadership, Gori si propone però come front runner tra quanti, non sono pochissimi dentro e nei dintorni del Pd, perseguono, in nome del “riformismo”, altra parola assai in voga diversi anni fa, la fine in tempi medi dell’intesa tra i democratici e il Movimento Cinque stelle.

Questa almeno è una posizione politica chiara, ma ha un grave difetto: col suo 19 per cento, che magari può crescere un po’ anche se come detto sopra non è chiaro il modo, non si capisce come un partito di sinistra possa ambire a giocare un ruolo politico e di governo non dico solo in questa legislatura, ma nell’Italia di oggi, senza un rapporto, anche se non necessariamente di alleanza elettorale, con i grillini. A meno di non cercarlo con Salvini e la Meloni, quel rapporto, magari in nome della “lotta ai populismi”, ma questo nessuno lo dichiara. Su questo però il Pd non riesce a dimostrare di avere le idee chiare, e c’è un motivo. È l’unico punto su cui Gori ha ragione.

Zingaretti, due anni fa, ha vinto limpidamente le primarie del Pd. Ma la sfida di quelle primarie è stata reticente e non sincera. Tre candidati si sono sfidati a colpi di chi gridava più forte il suo “mai mai mai con i Cinque stelle”; e solo qualche mese dopo, grazie a Dio, si è visto come quel “mai” non aveva ragione di esistere di fronte al minimo spiraglio per fare politica. A meno di non essere appassionati di popcorn, invece, come chi contava ancora molto nel Partito democratico nella fase in cui a quel dialogo si chiusero le porte. Qualcuno evidentemente, alla luce dei fatti successivi, interessato a che il Pd andasse incontro a una serena e rapida dipartita: sì, parlo di Matteo Renzi.

Quei “mai con i Cinque stelle”, nel congresso del Pd, erano un modo di non chiudere i conti con la stagione passata. Consentirono una sfida dove i massimi dirigenti si schierarono, esasperando un antico vizio della casa, più per calcoli e per amicizie che per reali differenze politiche: Gentiloni e Orlando con Zingaretti, gli ex renziani chi con Giachetti e chi con Martina. A casaccio, insomma, e soprattutto a prescindere dalla politica.

Ora c’è Zingaretti che ha vinto bene, fa bene il segretario e “ha pacificato il Pd”, come ripete Goffredo Bettini e come dimostrano le tiepide reazioni anche dei non zingarettiani alla sortita di Gori. Tuttavia resta sullo sfondo la non sincerità politica di quel congresso, e la questione non (forse mai) risolta dell’ “identità” del Pd, che infatti viene posta dal sindaco di Bergamo. Nei mesi della pandemia Zingaretti non ha quasi mai trovato le parole e i tempi: non solo per il problema di salute che lo ha colpito, dal quale fortunatamente è uscito presto e bene, ma per la pesantezza di un ruolo che sembra schiacciarlo. Anzi di due ruoli, a proposito del fatto che secondo Gori il segretario “dovrebbe essere” (altro retaggio anni 90) “un amministratore espresso dai territori”: sembrava che Zingaretti non potesse dire quasi niente come segretario del Pd perché era presidente di una regione; e quasi niente, caso pressoché unico tra i suoi colleghi, come presidente di regione perché era segretario del Pd. Ma soprattutto la seconda cosa.

Ma qual è l’identità del Pd negli anni Venti? Ci vorrebbe un congresso appunto. Anche se con le iniziative politico culturali di Gianni Cuperlo il Pd pre Covid aveva dimostrato di aver cominciato a porsela, la domanda. Oggi però il partito appare muto e immobile. Peggio, appare paralizzato da una sorta di appagamento e di presunzione di autosufficienza che non sono in alcun modo giustificati dai numeri dei sondaggi, per quanto confortanti rispetto alle micro scissioni subite. Nelle dimensioni della vittoria di Zingaretti alle primarie c’era un’aspettativa di rigenerazione del campo del centrosinistra che andava oltre gli stessi confini del Pd. Ma per ora quelle attese non sono state soddisfatte. Dalle Sardine alle donne di Perugia, dalle manifestazioni antirazziste all’inquietudine per il futuro del lavoro, al bisogno di protezione e magari di Stato (ri)scoperto a causa della pandemia, nel paese accadono cose dalle quali il Pd è fuori. Emergono domande che il Pd non raccoglie, e che non sono nemmeno a lui indirizzate. Il Pd continua ad apparire un partito pago, che vagheggia di vocazioni maggioritarie e candidati premier, che fa filtrare nomi per tutto, dal Quirinale al sindaco di Roma, senza accorgersi di non avere il fisico per ambire, in teoria, a niente. L’atteggiamento verso i Cinque stelle fatica a nascondere un senso di superiorità che i fatti non sempre giustificano. Sui territori le correnti impazzano. Offrire a personalità non di primissimo piano ma senza curriculum di partito ruoli come la presidenza dell’assemblea nazionale non sostituisce la necessità di parlare a quell’enorme fetta di “sinistra” nel paese a cui oggi il Pd non ha niente di significativo da dire.

Servirebbe riorganizzare quel campo, e possibilmente assumerne la guida. Ma per questo ci vorrebbe molto più coraggio e molta più generosità di così. Qualcosa che appunto si vedesse da fuori, desse il segno che la sinistra si rimette in gioco, e chi ci vuole stare trova spazio, e chi non è d’accordo fa serenamente altro, senza per forza “pacificarsi” con tutti. Non un altro segretario, ma un altro Pd. O un’altra cosa.

 

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Sulle messe tra Chiesa e governo qualcosa è andato storto. Raddrizziamolo

Per moltissimi di noi, la Fase 2 sarà dunque molto simile alla Fase 1. La conferenza stampa del presidente del Consiglio, aperta da una lunga serie di raccomandazioni che facevano ben capire come sarebbe finita, ieri sera ci ha mandato tutti a letto scoraggiati e delusi, se non angosciati. Però, diciamo la verità, con i numeri che sentiamo ogni sera al telegiornale sarebbe stato difficile aspettarsi qualcosa di molto diverso. Né mi pare negli altri paesi europei abbiano le idee molto più chiare: Macron, per dire, ieri s’è preso una ramanzina storica dagli scienziati francesi per la sua intenzione di riaprire le scuole, sulla quale c’è enorme incertezza ovunque; e anche sulle famose app di tracciamento, tema che non può non essere controversissimo nel mondo occidentale, non mi sembra che nessuno abbia trovato ancora la soluzione.

Mi ha molto sorpreso e preoccupato il comunicato durissimo della Conferenza episcopale contro il permanere delle restrizioni sulla celebrazione della messa con il popolo (contrariamente ai funerali, che saranno di nuovo consentiti alla presenza dei soli familiari e preferibilmente all’aperto). I Vescovi “non possono accettare di veder compromessa la libertà di culto”, ed “esigono” che possa riprendere l’attività pastorale dunque. Voglio dire qualcosa su questo, qualcosa che finora ho taciuto un po’ per pudore, un po’ per opportunità.

Secondo me è stato fatto, dall’inizio, un grave errore. Il governo non avrebbe dovuto vietare le cerimonie pubbliche insieme alle attività produttive, sportive, commerciali. Avrebbe dovuto chiedere alla Chiesa, nella sua indipendenza, di partecipare al lockdown del paese adottando decisioni coerenti. È stata una sgrammaticatura grave, credo, rispetto all’articolo 7 della nostra Costituzione. Nel pieno dell’emergenza è probabilmente sembrato un dettaglio, ma la forma è sostanza. Mi ha molto colpito che la Cei non abbia detto sostanzialmente niente allora su questo errore del governo (anche se ho letto di qualche saggio vescovo che si è affrettato a emanare lui un’ordinanza di divieto delle cerimonie pubbliche, proprio per salvare la forma). Qualcuno, Alberto Melloni su Repubblica, parlò allora di una “reazione troppo burocratica”.

Però poi abbiamo attraversato questa incredibile quaresima in lockdown, e mille fiori sono fioriti. È stata, credo di poterlo dire, una primavera per la Chiesa, per quanto dolorosa. Le chiese non sono mai state chiuse, la Chiesa si è presa cura dei poveri. Grazie alla fantasia e alla passione pastorale di tanti preti (e anche laici) abbiamo cominciato a ricevere link, podcast, messaggi vocali per meditare sul Vangelo del giorno. Abbiamo partecipato a ritiri spirituali su Zoom. Abbiamo avuto la messa su Facebook. Papa Francesco ha attraversato le strade di Roma per pregare il crocifisso che salvò la città dalla peste, ha regalato al pubblico televisivo la messa quotidiana di Santa Marta, poi ha inventato il gesto straordinario e storico della preghiera nella piazza vuota di San Pietro il 27 marzo. Ha celebrato in tv alla Cattedra le grandi liturgie della Settimana santa, compresa una straordinaria Via Crucis di nuovo nel vuoto della piazza. Ogni domenica mattina, dopo aver trasmesso l’Angelus (ora, dopo Pasqua, il Regina Coeli) dalla sala della biblioteca, il papa si affaccia alla finestra e con un gesto struggente guarda per un attimo Roma deserta e la benedice di nuovo.

Mentre decine e decine di sacerdoti davano la vita (anche letteralmente) negli ospedali e nei luoghi di sofferenza del virus, la Chiesa ha accompagnato tutti noi in  maniera straordinaria e creativa, e nel vuoto delle nostre distrazioni, dei viaggi, dei pranzi, della compagnia dei nostri cari è stata più presente che in tante altre quaresime che abbiamo vissuto andando fisicamente alle celebrazioni.

Per questo ora questa durissima reazione che arriva a definire “ingiustificabile” il permanere delle restrizioni sulle messe mi preoccupa e mi sorprende. Non perché non capisca che la vita sacramentale non può essere sostituita da uno streaming. Non perché non pensi che, come dall’inizio e come ho detto, il governo abbia sbagliato a considerare la Chiesa un interlocutore tra i tanti, e il presidente del Consiglio abbia peccato di superficialità nel non preparare una dichiarazione meno vaga su quel punto. Ma perché penso che questa reazione sia un segno di debolezza e una posizione minoritaria che non sono all’altezza di quanto la Chiesa italiana ha saputo vivere nelle scorse settimane.

Mi dispiace che i vescovi si mettano in una posizione impopolare: davvero pensiamo che si potesse dire agli italiani “da domenica tornate tutti alla messa”? Io stessa, anche potendo, dubito che lo avrei fatto. Prima di mettermi in fila per fare la comunione, anche ricevendola sulle mani, oggi confesso che ci penserei due volte, quattro se abitassi in Lombardia. Sicuramente avrei pregato i miei genitori di non farlo, e di continuare a guardarsi come fanno, contentissimi, la messa di Santa Marta o quella su Facebook. So che non è la stessa cosa, so che non può essere per sempre. Condivido le parole dette qualche giorno fa dal papa sui rischi di “gnosi” se questa diventasse la norma. La Chiesa è “popolo”, il popolo “celebra” la messa tanto quanto il sacerdote: la presenza del popolo è essenziale nell’eucarestia. Giusto mantenere la consapevolezza di queste cose. Ma questo giustifica una reazione quasi rabbiosa e con quegli argomenti, quasi fosse colpa del governo se la messa col popolo non si può (ancora) celebrare? È coerente con la fantasia pastorale dimostrata in queste settimane?

Ultima cosa: vale la pena di prestarsi, come inevitabilmente succederà, alle strumentalizzazioni di qualche partitino o partitone abituato a volare bassissimo, a quelle degli atei devoti che in questo lockdown non hanno visto una messa in streaming nemmeno cliccando per sbaglio, a quelle dei nemici di papa Francesco? Non dubito che nella Chiesa italiana ci sia spazio anche per queste considerazioni. Intanto il governo annuncia nuove riflessioni e nuovi protocolli, speriamo che si possa raddrizzare, con l’aiuto di tutti, quello che è andato storto.

Se oltre al ritorno di chi sa, tornasse la complessità

Scrive oggi sul Corriere in un bell’articolo Goffredo Buccini (“Il ritorno di chi sa“, è il titolo) che grazie al Coronavirus sta forse finalmente finendo la stagione dell’incompetenza, un assurdo periodo caratterizzato dagli slogan dell'”uno vale uno”, dalla diffidenza verso i “professoroni” e dal considerare l’inesperienza come valore aggiunto.
Spero che sia così, sarebbe un bell’ex malo bonum. E tuttavia sarebbe ancora più bello se questa vicenda ci insegnasse anche che nemmeno “gli scienziati” sono rockstar o santoni per cui fare il tifo. La comunità scientifica, stiamo imparando in questi giorni, è qualcosa di plurale, fatta di uomini e donne che pur competenti non sempre la pensano allo stesso modo e che attraverso il pluralismo e il confronto si avvicinano, insieme, alla verità. E a volte la verità, come in questo caso, va ancora cercata.
Questo virus, a quanto pare, si diverte a spiazzarci. Si prevedeva che il pericolo sarebbe stato cinese, la zona rossa – per il calcolo delle probabilità – in Toscana, l’epicentro le grandi città; invece abbiamo i focolai nella Bassa lodigiana e sui Colli euganei, i positivi asintomatici, il paziente zero missing, e non si trova un cinese infetto praticamente nemmeno a pagarlo. Praticamente, ne sappiamo meno di una settimana fa. Tutti. Forse abbiamo confuso le idee al mondo. Ed è esattamente grazie a questo, che tra un po’ il mondo ne saprà di più. Perché è esattamente così che progredisce la ricerca, grazie a nuove domande che portano a risposte più esatte.
Se “grazie” all’emergenza e agli imprevisti (e all’imprevedibile) imparassimo a piantarla coi virologi di partito “che non hanno sbagliato un colpo”, lo snobismo da social su qualunque “incompetente” abbia la responsabilità di decidere qualcosa, la pretesa che tutto quello che succede nel mondo sia per forza “colpa” di qualcuno che manco a dirlo dovrebbe “dimettersi”, avremmo fatto un bel passo avanti. Oltre al ritorno di chi sa, sarebbe il ritorno di un po’ di umiltà. E, forse, di maturità. 

Ma come fanno le liste? No, come fanno le leggi elettorali

Adesso mi cerco un po’ di guai. Michela Rostan era una deputata uscente. Eletta nel Pd dopo aver vinto le primarie nel suo territorio, la provincia di Napoli, era passata ad Articolo Uno. E’ stata ricandidata come capolista in un solo collegio, il suo: Campania 1. Non è stata “garantita” in alcun modo. Anzi: nella circoscrizione della Campania Articolo Uno puntava come è ovvio e come qualsiasi partito farebbe a “garantire”, per quanto possibile, il suo coordinatore e fondatore Arturo Scotto, capolista negli altri due collegi di Napoli, quelli della città. Invece è scattato quello della provincia, Scotto è fuori dal parlamento e la Rostan è deputata.

Perché? Chiedetelo a Rosato. Guardatela, la legge elettorale. Non è un caso se il meccanismo di assegnazione dei resti è stato ribattezzato “il flipper”. Per un partito medio grande è sempre possibile garantire qualcuno con un buon posto nelle liste proporzionali, ovviamente. Per un partito che supera la soglia elettorale di poco il meccanismo diventa semplicemente random. Tra migliori perdenti, ordine decrescente dei quozienti, pluricandidature senza possibilità di opzione, incrocio dei resti, il risultato è totalmente casuale. La verità è che se oggi abbiamo persone che ci rappresentano pienamente (almeno a me) come Speranza, Bersani, Fornaro, Epifani, Stumpo, Conte, Errani in parlamento è perché abbiamo avuto culo. Con altri, da Cecilia Guerra a Scotto tanto per fare solo due nomi, ne abbiamo avuto meno. Altri, infine, hanno avuto culo loro.

Io non dico che non siano stati fatti errori e forzature al momento di decidere i candidati. Dico che ad avere saputo che Articolo Uno eleggeva otto deputati ci è andata bene. Potevano essere otto sconosciuti capitati lì per caso. Il consenso, i voti dei cittadini non c’entrano niente, e nemmeno, ripeto, i tentativi legittimi di un piccolo partito di garantire almeno il suo gruppo dirigente ristrettissimo, cioè la sua identità e la sua continuità. Per quanto mi riguarda, da ex candidata in Toscana, sono felicissima di aver contribuito a “garantire” il nostro segretario nazionale, Roberto Speranza. Chi bisognava garantire? Me? Andiamo, cerchiamo di non essere infantili.

E soprattutto cerchiamo di fare meglio le leggi elettorali in futuro, smettiamo di accettare alchimie cervellotiche che generano solo nuova antipolitica (vi ricordate i pezzi sui deputati “ripescati”? “Ripescati” cosa, quando era ovvio che per una lista delle dimensioni di quella di LeU le candidature nei collegi potevano essere solo di servizio?).

Per il resto, per quanto riguarda la vicenda specifica, non merita spendere molte parole. E poi ha già detto tutto proprio Scotto: il vincolo di mandato no, ma bisognerebbe almeno introdurre il vincolo di dignità.

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Perché punto al premio Pollyanna. Tre cose sulla mia vita social

Stamattina quando ho aperto Twitter ho pensato che se istituissero un premio per chi mantiene il buonumore di fronte alle peggiori insolenze, illazioni personali, allusioni sessuali, offese professionali, accuse di incompetenza fondate sull’ignoranza dei fatti, ecco senza falsa modestia: mi candido. L’ho scritto in un tweet e ho messo anche l’hashtag: #premioPollyanna. O, non ci crederete: m’hanno risposto che tanto non lo vinco il premio perché modestia e tolleranza non so cosa siano. Ma io infatti mi ero solo candidata!

La pesantezza. Questo è il male del nostro tempo, mannaggia.

Però un po’ mi scoccia quando non riesco a spiegarmi, così se qualcuno avesse voglia di leggere vorrei provare a dire tre cose – non per diradare la shitstorm social ormai costante ma in questi giorni più intensa che in altri, che con quella ormai ci convivo. Ma a futura memoria, per chi fosse interessato a sapere cosa penso, o anche solo cosa fa sì che meriti tante attenzioni.

  1. Ihihihihi: mi ha fatto ridere questo video di Renzi che attaccava la prescrizione, pubblicato da Repubblica, e l’ho twittato con una risatina e una faccina. Ora, lascio perdere le offese e gli insulti, ma vorrei puntualizzare agli “hai preso un abbaglio, perché Renzi la prescrizione l’ha allungata e non abolita” che non sono proprio stupida. Quel video, quell’operazione (non mia, di Repubblica) è esattamente speculare a quella che stanno facendo da giorni i superfans della squadretta renziana: postare video e dichiarazioni di Andrea Orlando contro la riforma Bonafede, fatti quando era un deputato dell’opposizione. Lo stesso ex ministro della giustizia ne ha parlato sui social: “Mi ha puntato la bestiolina”. “Abbiamo votato la riforma di Orlando, abbiamo votato la riforma di Orlando!” ripetono da giorni i fans di chi, esponente di un partito di maggioranza, ha invece votato la proposta di un deputato dell’opposizione che strumentalmente si rifaceva al testo della riforma Orlando, in presenza di un accordo di maggioranza che prevede un altro percorso per superare gli squilibri introdotti dalla riforma Bonafede. Un comportamento che, lo ha detto ieri sera in tv Massimo Giannini, mica la faziosa e ossessionata Geloni, di solito porta dritto alle crisi di governo. E quindi ecco perché quel video fa ridere, e perché l’ho rilanciato: non tanto perché dimostra che Renzi è un bugiardo (cosa vera, ma non rilevante in questo caso). Ma perché dimostra che il contesto politico e generale in cui una cosa accade può cambiare i giudizi e i comportamenti politici, anche senza che questo significhi cambiare idea nel merito. Che è esattamente il motivo per cui un partito di maggioranza non può e non deve votare la “riforma Orlando” proposta da Forza Italia. Ho capito benissimo quel video. E sono in grado, vedete, di spiegare perché l’ho postato – se qualcuno è in grado di leggere.
  2. La Buona scuola: ieri mattina in tv ad Agorà mi è capitato di commentare la vicenda della scuola romana finita sui giornali per aver segnalato sul suo sito la differenza di classe sociale degli alunni che frequentano i diversi plessi che la compongono. Ho detto che le scuole pubbliche non dovrebbero essere costrette a fare depliant pubblicitari o siti promozionali segnalando come un’attrazione l’assenza di disabili e stranieri o la presenza di figli di famiglie “perbene”, e che questo è figlio di una mentalità aziendalista e competitiva introdotta da una riforma sbagliata. La conduttrice mi ha interrotto chiedendomi a quale riforma mi riferissi e io ho risposto: alla Buona scuola del governo Renzi. Il tempo era poco, non era assolutamente un dibattito tra specialisti, altrimenti (a parte che non avrei neanche avuto titolo a parlare, a quel punto) avrei certamente dovuto dire che questa mentalità arriva da lontano, e che ci sono state anche altre riforme che andavano in questa direzione. Le mie parole, inoltre sono state riprese da un video-tweet che ha fatto una sintesi molto “sparata” e ci ha aggiunto un’immagine di Renzi alla fine. Ma vogliamo negare che la Buona scuola abbia dato la spinta finale verso questo esito, stravolgendo completamente alcune posizioni storiche della sinistra sul ruolo degli insegnanti e della scuola pubblica? Ma no, “la Geloni darebbe la colpa a Renzi anche dei cambiamenti climatici e dell’affondamento del Titanic” (beh, dell’affondamento del Titanic sì!), e “la scuola di classe è sempre esistita”, e addirittura “sicuramente tu ne hai beneficato”. Allora guardate, quando io andavo alle medie se abitavi di qua dal Viale andavi alla Rosselli, se abitavi di là dal Viale andavi alla Carducci. Io abitavo di qua, e infatti sono andata alla Rosselli. Che aveva una succursale, dove nessuno voleva andare (chissà poi perché, era a cento metri di distanza) e ci stavano le sezioni D e F. Fecero il sorteggio, finii nella D e infatti andai alla succursale. In classe non conoscevo nessuno. Per me era molto meglio di come funziona adesso, senza depliant e siti promozionali, e maestre che suggeriscono gli abbinamenti tra i bambini e famiglie che trattano per essere abbinate e bambini che si stressano per essere all’altezza della scuola “giusta”.
  3. Però alla fine di tutto sto pippone volevo dire anche una cosa, che poi è il motivo per cui l’ho scritto. Volevo dire che questa non è solo una cosa organizzata, è una tecnica. Una tecnica che usano i politici sui social per avere consenso o intimidire il dissenso. Additare qualcuno, caricaturizzarne il discorso per passare per vittime o attirare simpatie, lasciando questa persona in balia per ore e per giorni dei loro supporter e fanatici. Questa tecnica non è solo orribile: è pericolosa. Anche, perfino, se davvero (e quasi mai lo è) fosse un modo per rispondere a vere offese al leader. Ho letto che Sergio, il ragazzo delle Sardine affetto da dislessia deriso da Salvini in un video e un tweet, sta rischiando di perdere il lavoro perché la sua sicurezza non può essere garantita. Ecco vedete, non lo scrivo per me, io ormai punto al premio Pollyanna. Lo scrivo per persone come Sergio, che è l’ultimo a cui capita questo, o altre a cui è già successo, che non nomino per non contribuire a rimetterle sotto i riflettori. Offendere un leader politico, tantomeno criticarlo, non significa meritare di essere messi alla gogna. Non siamo tutti uguali, né sui social, né nella vita. E dovremmo pretendere che nessuno se lo dimentichi.
  4. (lo so, avevo detto tre). Vi state chiedendo se queste cose di cui al punto 3 le fa solo Salvini? La risposta è no.

Renzi è già uscito dal Pd. Ammesso che ci sia mai entrato, cosa di cui dubito

Lo dico ai tanti amici angosciati dalle incredibili interviste dei renziani, annuncianti una scissione priva di alcuna plausibile motivazione politica, anzi una “separazione consensuale” in cui addirittura Renzi “lascerebbe” qualcuno libero di rimanere nel partito perché, si sa, l’uva è acerba.

Lo dico a Gianni (Cuperlo), a Peppe (Provenzano), lo dico soprattutto al mio più vecchio amico Dario (Franceschini) che lo sa meglio di tutti, come lo so io: non è vero che le scissioni sono sempre foriere di sventure e di sconfitte.

Io nel 1994 ne ho fatta una fichissima di scissioni. Quella scissione portò al governo un nuovo centrosinistra, e il suo leader morale oggi è al Quirinale a rappresentare e a difendere le nostre istituzioni, la democrazia, noi tutti, come nessuno saprebbe fare al suo posto. Ne ho fatta un’altra poi, nel 2017: non è andata altrettanto bene nelle urne, ma il passare del tempo mi sta rassicurando che tutti i torti non li avevo. E qualche conferma – e qualche soddisfazione – me la state dando anche voi amici, con le vostre interviste e le vostre parole di questi giorni: grazie.

Vi dico, amici: lasciate che facciano un po’ quello che vogliono. Se c’è un moscone che sbatte fastidiosamente contro i vetri, aprite la finestra. Non cambierà niente. Tanto lui, Renzi, è già fuori dal Partito democratico, ammesso che ci sia mai entrato.

Lo so benissimo che è stato eletto segretario legittimamente, lo so che non è un corpo estraneo, che è uno di noi dall’inizio, addirittura dai tempi preistorici del Partito popolare (no Dario?). Sto dicendo un’altra cosa. Quello a cui mi riferisco è la sua totale estraneità all’idea stessa di un partito grande, plurale, contendibile, democratico.

Estraneità che abbiamo visto benissimo nel momento del potere – quando Renzi ha concepito solo le prove di forza e la brutalità (ne siete stati vittime anche voi) come metodo di governo del partito. E che vediamo da quando fa, si fa per dire, “la minoranza” – ora che Renzi non riesce a non sentirsi “controparte” rispetto a chi guida il partito dopo di lui, e per questo deve farne un altro: per “stare al tavolo”.

Perché Renzi non può essere rappresentato da nessun altro che da se stesso, in una triste politica senza politica, capace di passare dal #senzadime al #vengoanchio, dal non voglio poltrone a volevo i toscani, nel tripudio identico e costante dei fans, a seconda delle convenienze tattiche. E chi non è d’accordo è un nemico, o ha problemi psichiatrici, è ossessionato, rosica.

In questo senso il Pd di Renzi non è stato mai il Pd, e Renzi non appartiene al Pd, non ha niente a che vedere col Pd, e non ha niente a che vedere con voi. Né con me. Aprite la finestra amici, che abbiamo un sacco da fare, un nuovo centrosinistra da costruire.