Non ci eravamo sbagliati, sarebbe stato il Pertini cattolico

A un certo punto erano tutti lì, stamattina. Senza essersi dati appuntamento, molti dei protagonisti di quei Giorni bugiardi del 2013 sono arrivati insieme per salutare Franco Marini alla camera ardente nella clinica Villa Mafalda.
Sergio Mattarella, con il gruppo dei suoi collaboratori più stretti, quasi tutti dirigenti e militanti di “quel” Partito popolare di cui lui era capogruppo alla Camera, risale veloce in macchina poco prima dell’apertura al pubblico.
Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza e Guglielmo Epifani, senza essersi messi d’accordo, si sono incontrati da qualche minuto all’angolo della strada. Scendono insieme, e il ministro ricorda “l’intervento di Guglielmo”: presentò lui, al Capranica, la candidatura di Marini. Rievocando con emozione un percorso comune nelle forze del lavoro, un incontro tra un credente e un non credente, gli stessi valori, un’idea di partito, una semplice verità: “È un fondatore del Pd”. Quel Pd che avrebbe davvero trovato se stesso quella sera, sulla via del ragionamento e dell’emozione di Epifani.
Poi la sequela incredibile di interventi contrari, i massimalismi insospettabili, i rancori puntuti. Una perdita di senso collettiva che resta ancora, anche al netto di qualche errore di gestione, inspiegabile. Il terrore per i tweet che bombardavano quella riunione da fuori, quel melodrammatico “Fermatevi!” del segretario regionale che bloccò l’Emilia Romagna. La deputata bolognese che dopo due giorni andò in lacrime da Bersani: “Segretario, che cazzata che ho fatto a non votare Marini”. E ormai in piena tempesta, il discorso eroico di Stefano Fassina: “Mio cognato ha cinquant’anni, fa l’elettrauto, non sa chi è Rodotà. Ma sa chi è Franco Marini, un difensore dei lavoratori!”.
Pochi passi, poco tempo per mettere in ordine i ricordi: si può già entrare. Bersani e gli altri, con Dario Franceschini, sono tra i primi. Franco Marini ha il cappello da alpino appoggiato sul cuore. Ci sono Sandro, suo fratello, e Davide, il figlio amatissimo di Marini e della signora Luisa. Non si può stare molto.
Dario è uscito prima, ma ha aspettato fuori. Si avvicina: “Non ci siamo sbagliati Pier Luigi, sarebbe stato un grande presidente”. “Il Pertini cattolico”, ripete come in quell’aprile di otto anni fa Bersani. “Un presidente di sinistra, vicino alla vita reale, amatissimo”, concordano i due. “Poche settimane dopo ci sarebbe stato il raduno nazionale degli alpini, te lo immagini che roba?”, sorride Bersani. “Ma la vita va a rovescio”, conclude Franceschini. Poi la storia dà torto e dà ragione, penso io.

Addio nonno Franco, grazie per tutta quella fiducia

Pubblicato su Facebook

Lavorare per il Ppi di Franco Marini era come stare al luna park della politica. La prima volta arrivammo, io e Gianmarco, che lui scendeva sbrigativo le scale attorniato dal classico codazzo un po’ collaborativo e un po’ molesto. Era il prossimo segretario, l’emergente. Aveva quello sguardo fiero e quel passo dritto e veloce che ha avuto fino all’ultimo. Dimostrava vent’anni di meno di quelli che aveva (allora, un po’ più di sessanta). Era il primo politico importante che vedevo così da vicino. Io lo guardavo dal basso mentre scendeva con la pipa, ancora più piccola di com’ero. Mi faceva un po’ paura.
Ma poi scoprimmo che si fidava. Era facile: ti chiedeva una cosa e aspettava che la facessi: normale. Né gentile né scortese. Era brusco, non sorrideva quasi mai, magari non diceva grazie, ma ti invitava a mangiare un pezzo di pizza bianca con la mortadella nella sua stanza: goduria immensa, aneddoti assicurati, a volte cantava: vicino o mare…
Una sera che mi vide nel cortile del Gesù sudare sui pedali perché il mio motorino scassato non partiva, lo sentii chiedere al capo ufficio stampa: “A Piè, ma jeli stamo a dà du sordi a sti ragazzi”?
Grazie per tutta quella fiducia e tutta quella semplicità, nonno Franco. La volpe sotto l’ascella da lì in poi ce l’hanno avuta in tanti, tu lo sai quanto ti ho sempre voluto bene.

Il Pd e i girotondi sulla crisi, analisi di un partito

Intervista a Formiche.net

di Francesco De Palo

“Un grande errore dare del filo a Renzi. Il Pd ha mostrato troppa equidistanza tra Conte e Italia Viva”. Lo dice a Formiche.net Chiara Geloni, già direttrice di Youdem e autrice del libro “Titanic. Come Renzi ha affondato la sinistra” (PaperFIRST, 2019) che scompone la crisi di governo nei suoi aspetti più intestini. Punto di partenza non è nell’oggi e nella possibile rottura di queste ore all’interno della maggioranza, ma nell’ultimo decennio quando il Pd ha mutato il proprio status anche personale, osserva. E sul Conte ter dice che…

Chi decide la linea nel Pd?

Naturalmente non ho dubbi che sia il segretario. Ma la domanda è resa legittima dal fatto che, in effetti, una delle non poche anomalie di queste giornate è che sembrano non esserci più neanche i luoghi, né i momenti in cui la politica dica qualcosa guardando le persone negli occhi. Nessuno ricorda un grande discorso pubblico o una grande intervista di Zingaretti attraverso i media o i canali social del partito a tutti gli uomini e le donne del Pd per raccontare cosa sta succedendo. Mi pare volersi affidare solo al retroscena, alle voci che filtrano o ai vicesegretari. Si arriva così al paradosso di Renzi che manda a Bettini, un autorevolissimo privato cittadino, le sue proposte sul Recovery.

Quanto conta realmente Nicola Zingaretti e quanto Dario Franceschini (e tutti gli altri) mentre al partito manca una fase assembleare, al netto dell’emergenza Covid?

Il momento assembleare manca per i motivi noti, ma al di là del Covid mancano i partiti. Manca una sede, un luogo, un giornale dove la linea del partito venga fuori come frutto non di un assemblearismo sessantottino, ma di una vera discussione tra veri leader che esprimono vere opzioni politiche. Non sono scandalizzata dal fatto che Zingaretti non sia l’uomo forte che decide senza discutere, quanto dal contrario: ovvero che i partiti non sono più luoghi in cui si discute. Il pluralismo è una bella cosa ma oggi nei partiti sembra un po’autoreferenziale perché si svolge tra membri del gruppo dirigente e non tra leadership che esprimono diverse sensibilità condivise. Parlo del Pd perché è stato l’ultimo dei partiti, ma vale anche per tutti gli altri.

Il Pd ha più volte detto chiaramente di non voler uscire dall’attuale schema di governo. Ma come pesa i rilievi al governo di Gentiloni e Sassoli sul Recovery?

Non credo sia giusto considerare qualsiasi opinione contraria come una critica. Il governo aveva elaborato una bozza sul Recovery che come tale era suscettibile di modifiche. Le critiche o i rilievi non vanno considerati come lesa maestà. Ciò che appare inaccettabile del Pd è la stata sua troppa equidistanza tra la posizione di Conte e quella di Italia Viva a tal punto che Renzi ha potuto dire, debolmente smentito, di parlare anche a nome del Pd. Il partito avrebbe dovuto essere più fermo nel difendere non Conte come persona ma come prospettiva di governo e come modo di starci, modus che non può essere rappresentato dal comportamento di IV, a prescindere dai torti e dalle ragioni. Non si sta in una maggioranza in questo modo, dando ultimatum ogni giorno, soprattutto dall’alto di una percentuale che, ovviamente rispetto, ma che in quanto tale non può pretendere di influire su tutta la linea.

È vero che un pezzo del Pd concorda nella tesi renziana?

Temo che il Pd abbia pensato che Renzi potesse rappresentare, con più libertà, un disagio presente tra i dem. È stato un grave errore, perché Renzi non è affidabile né controllabile, né può essere il rappresentante della cultura di governo Pd. Per cui non è interesse del Pd mantenere questa ambiguità, rispetto ad una fase che è già stata giudicata molto severamente dagli elettori.

Si poteva evitare di arrivare a questo punto, in un momento complicatissimo come quello in cui l’Italia si trova?

Sì. Ma sto ascoltando considerazioni sgradevoli anche sul piano umano: sono quasi dieci anni che ciò accade all’interno del Pd dove, prima ancora che una frattura politica, penso siano stati superati quei limiti umani che consentono la sopravvivenza di una comunità. Di questo sono stata testimone. Il Pd rifletta su questo aspetto, anche per valutare cosa accadrà nei prossimi giorni. Un governo può cadere e, molto laicamente, un’esperienza si può anche chiudere: ma c’è modo e modo di gestire una fase del genere e troppo spesso in passato il Pd ha gestito dei passaggi importanti calpestando le persone, con un messaggio sentimentalmente suicida rivolto agli elettori.

Bettini è un libero battitore oppure no?

Apprezzo il suo contributo e la sua intelligenza, ma non so definirlo. Certo non credo spetti a lui convocare assemblee. Il Pd per varie ragioni è rimasto senza padri nobili: oggi Bettini è l’unico che esercita un ruolo che spetterebbe forse ad una generazione che nei momenti difficili si mette a disposizione in maniera collettiva. Ricordo che all’epoca della segreteria Bersani egli si confrontava nei momenti più critici con un gruppo ristretto ma autorevole di dirigenti. Se oggi Zingaretti volesse farlo, avrebbe molte persone intelligenti da ascoltare. Ma osservo che il Pd è l’unico che non ha più ex segretari al suo interno, salvo Franceschini. Mi sembra una primizia assoluta.

“A che ora nasce quest’anno Gesù bambino?”

“A che ora nasce quest’anno?” è la domanda che faccio ai miei genitori tutti gli anni quando, qualche giorno prima di Natale, arrivo a Carrara (quest’anno chissà). Chiunque sia mai andato alla messa di Mezzanotte (ma anche chiunque l’abbia seguita in televisione in diretta da San Pietro e celebrata dal papa) sa benissimo che la messa di Mezzanotte non è mai a mezzanotte.

Se proprio proprio si vuole essere letterali (come io preferisco, sono una cattolica un po’ tradizionalista) la messa di Mezzanotte inizia verso le 23 e 45, in modo che a mezzanotte, mentre si dice il Gloria – l’inno che evoca l’annuncio degli angeli ai pastori, “Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama” – risuonino le campane e venga svelata nel presepe l’immagine del bambino Gesù, a simboleggiare la sua nascita.

Però questa cosa della mezzanotte non è mica un dogma di fede, anche perché ci sono posti dove fa molto freddo, persone anziane, spesso preti anziani (e anche appunto papi anziani), e insomma l’orario della messa spesso varia in un generico dopocena che cambia anche ogni anno. Anche perché come sanno tutti (parlo sempre di tutti quelli che vanno alla messa almeno ogni tanto), gli impegni dei parroci sono tanti e vari, molti di loro celebrano più messe in posti anche distanti chilometri, e comunque alla messa di Natale si può andare anche la mattina dopo. Per questo appunto a chiunque vada in chiesa a Natale, e tra questi credo sia il ministro Francesco Boccia, oggi processato per eresia su diversi giornali di destra, capita con la confidenza e la tenerezza e anche l’ironia con cui parliamo di queste cose di fare o sentirsi fare la domanda: “A che ora nasce, quest’anno?”.

Anche perché non è mica detto che Gesù bambino sia nato proprio a mezzanotte. È nato di notte, di sicuro, perché lo scenario notturno è descritto nei vangeli (i pastori appunto “vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge” quando hanno ricevuto l’annuncio degli angeli). Ma che fosse mezzanotte non sono tanto sicura, con tutta quella gente in giro a pescare, filare la lana, prendere l’acqua al pozzo: del resto a dicembre è notte anche alle cinque di pomeriggio. Non bisogna farsi trarre troppo in inganno dal presepe, sapete: per esempio questa storia del bue e dell’asinello è molto dubbia. E anche i tre re Magi probabilmente non erano tre, e di sicuro non erano re. Ma queste cose ve le racconterò magari un’altra volta.

Cosa sto cercando di dire? Leggo su Repubblica di oggi che il governo sta trattando con la Cei sulla questione della messa di Mezzanotte: bene. Secondo me avrebbe dovuto farlo anche a marzo scorso, e l’ho scritto, quando prese la decisione ben più pesante di sospendere le messe, e probabilmente non ne ebbe il  tempo e la lucidità. Però non c’è ragione di fare una guerra di religione sulla messa di Mezzanotte e credo che la Cei non abbia motivo di chiedere trattamenti speciali: se ci sarà ancora il coprifuoco, ci sarà il coprifuoco: vorrà dire che ci regoleremo anche per la messa. Andremo in chiesa prima, o la mattina dopo, o guarderemo papa Francesco in tv. Valuti il governo come sarà giusto chiederci di comportarci e ce lo dica. Varrà per le messe come per le cene e i cenoni, e (par condicio) anche per i pranzi del giorno dopo (magari anche i giornali romanocentrici dovrebbero ricordarsi che per mezza Italia il Natale è una cena, per mezza Italia è un pranzo; ed è giusto così, il mondo è vario).

Ecco, fossi nel governo eviterei di far girare contemporaneamente sia l’idea di ripristinare il coprifuoco per Natale sia quella di far stare aperti i negozi fino alle 22 per garantire lo shopping nei giorni precedenti: perché capisco tutto ma è un po’ seccante dare l’idea che a Natale è più importante fare acquisti che andare alla messa. Anche perché appunto sia gli acquisti che la messa si possono fare in altro orario. Insomma dateci una regola, possibilmente ragionevole, e chiedeteci di essere responsabili rispettandola tutti insieme. Lo faremo, con qualche più o meno grande sacrificio ma sicuramente senza nessun sacrilegio.

La pandemia siamo noi. Il racconto che non c’era, in attesa del sequel

Pubblicato su articolo1mdp.it

Una cronologia del lockdown, sembra incredibile, non c’era. Un racconto orizzontale di quelle giornate e di quelle settimane della scorsa primavera, in cui le nostre vite, e contemporaneamente il mondo, sono stati investiti da qualcosa di gigantesco e inedito come una pandemia nell’era globale, e un po’ si sono fermate, un po’ sono andate avanti, mentre tutti eravamo soli ma intanto vivevamo la stessa cosa tutti insieme.

Una cronologia che mettesse insieme e in ordine tutto quello che è avvenuto tra dicembre e luglio, i giorni angosciosi di Milano-che-si-ferma e intanto partono le primarie americane, il 25 aprile e papa Francesco, i discorsi dei primi ministri, le prime pagine dei giornali, la comunicazione pubblica e la pubblicità: non c’era e l’hanno scritta Giuseppe Mazza, insegnante di pubblicità e comunicazione, direttore creativo e fondatore dell’agenzia Tita, e Claudio Jampaglia, giornalista di Radio popolare. L’hanno scritta mettendo in un libro – La pandemia siamo noi, Persone, idee e merci ai tempi del virus, Ponte alle grazie – le loro chiacchierate durante trasmissione settimanale Di Lunedì in onda ogni lunedì mattina alle 8.00 su Radio Popolare (e disponibile su podcast per i non milanesi).

Un libro, e non poteva essere diverso, pieno di immagini e, perché è un eBook, anche di link, perché “la pandemia è il nostro mondo in forma estrema”, e la “storia globale” che ha aperto non bastano le parole a raccontarla. Il virus, con la potenza dei grandi fatti della storia, si è fatto in pochi giorni cultura, discorso pubblico. Ha coinvolto i grandi leader mondiali e i fatti della politica, ha fatto rinviare le Olimpiadi, ha monopolizzato completamente la comunicazione in tutte le sue forme, dai giornali ai social alla pubblicità. Ha costretto tutti gli attori pubblici (e privati) a cercare un altro tono di voce; e ha messo impietosamente a nudo il fatto che qualcuno ne è stato capace, e qualcuno no.

Da dicembre a luglio, dalla Cina alle spiagge. E servirà un sequel, probabilmente, di questo racconto che non era finito, di questa condizione estrema che è diventata la nostra normalità. E ci ha rivelato, soprattutto a ripercorrerla, molte cose che già adesso è utile ricordare. Adesso che siamo ancora qui, ma tutti ci sentiamo più stanchi, più incattiviti, più impazienti, e non riusciamo a ricordarci di essere più forti, più preparati, più – purtroppo anche tragicamente – esperti.

Perché adesso è facile dire eh, durante il lockdown le cose sono state gestite meglio, il governo era più lucido, la gente era migliore: si stava sempre meglio prima, no? E ovviamente questo serve a dire che invece adesso va tutto male, “abbiamo perso tempo”, “siamo stati incoscienti”, “vuoi mettere gli altri”. E invece i fatti rimessi in fila dicono che non è così. Durante il lockdown è stata dura, ed è dura adesso, ma la realtà parla chiaro: gli italiani sono stati capaci di responsabilità, di sacrificio, di forza d’animo. Ce l’hanno fatta, e ce la faranno. È il messaggio dei Cavalieri di Mattarella, i cinquantasette “eroi del Covid” premiati per essersi distinti durante l’emergenza: persone comuni, una cassiera, un farmacista, un ricercatore, un’infermiera, capaci di restare al loro posto e fare il loro dovere.

Come tutte le situazioni estreme, la pandemia rivela. Punisce i messaggi fasulli alla “Milano non si ferma”, figli di un’idea manipolatoria e paternalistica della comunicazione. Premia la capacità di attraversare il momento con gesti rivelatori di verità, di entrare nella storia, come papa Francesco in via del Corso e poi in piazza san Pietro e Mattarella all’altare della Patria: sono qui, io ci sono, siamo tutti qui sulla stessa barca: potremmo chiamarla adeguatezza. Punisce il cinismo insopportabile delle pubblicità buoniste, i “ripartiamo” ma intanto comprati questo. Premia i messaggi di valore pubblico, l’assunzione di responsabilità: i Fauci, e probabilmente anche i Biden, partito nel gennaio scorso con uno slogan, alle primarie, che a rileggerlo diceva tutto: America is an idea.

Questo libro serve, perché aiuta a vederci dentro una storia globale, a liberarci da un punto di vista sbagliato su noi stessi tipico del racconto pubblico prevalente nei media. Un’idea “denigratoria perché elitaria, che recepisce il giudizio storico della classe dirigente sugli italiani, che è largamente superato dai fatti e si può sostituire con la realtà di una cittadinanza diversa” (cito), “tesa a dimostrare come si tratti di un popolo instabile, volgare, democraticamente inaffidabile. E invece stavolta, messi alla prova, gli italiani hanno dimostrato il contrario”. I media, e io aggiungo, la politica, possono anche non farlo, concludono Jampaglia e Mazza; ma non si accorgono di perdere sempre più contatto con il loro pubblico (e gli elettori?). Pensiamo alla risposta (ancora) di Mattarella a Boris Johnson, episodio dello scorso settembre che nel libro non ha fatto in tempo a esserci: “Noi italiani amiamo la libertà, ma abbiamo anche a cuore la serietà”. Ecco perché serve un sequel. Che ci aiuti a ritrovare il filo di questi giorni, che non è quello che ci raccontano e ci raccontiamo. Intanto c’è un libro da leggere. Per tutto il resto, a lunedì.

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Marcucci non è un cavallo di Troia. E non è lui il problema del Pd

Pubblicato su Tpi.it

Eppure non mi convince chi spiega il clamoroso corto circuito che ieri ha visto il Pd chiedere di fatto la crisi di governo in pieno dramma pandemia, ricevere i complimenti di Salvini e prodursi in una precipitosa e un po’ scomposta (ma a quanto pare sorprendentemente indolore) marcia indietro, con l’idea che il capogruppo democratico al senato Andrea Marcucci sia un cavallo di Troia di Renzi, lasciato nel Pd a fare gli interessi di Italia Viva. Sarebbe dunque solo per via dell’ingenuità o della irresolutezza della nuova maggioranza se il problema Marcucci non è ancora stato risolto sollevandolo dall’incarico in modo che non avvenga più che egli parli a nome di tutto il Partito Democratico, visto che è così inaffidabile e fuori linea. Semplice no?

Eppure. Intendiamoci bene: io penso che se Marcucci non si dimette dopo la giornata di ieri, allora io non so quando ci si deve dimettere. Però è proprio l’idea della quinta colonna che non mi convince. E non solo perché a Marcucci il posto di capogruppo non glielo hanno regalato, è in quel ruolo perché è stato eletto ed è espressione di un’area molto forte nei gruppi parlamentari del Pd.

Intanto bisogna chiarire chi è Andrea Marcucci. È piuttosto semplificatorio definirlo “un renziano”. Intendiamoci, lo è: un renziano per giunta toscano e della primissima ora, uno degli uomini chiave della scalata dei rottamatori. Però Marcucci c’era ben prima di Renzi (da quando nel 1992 fu eletto deputato nelle liste del Partito liberale, sì: del PLI), e ci sarà dopo. Non ha bisogno della politica per vivere, è maggiorenne e vaccinato e sono abbastanza sicura che abbia fatto parecchi anni di militare a Cuneo: è uomo di mondo, Marcucci. Non è uno yes man, non ha motivo di obbedire a qualcuno che non può garantirgli niente che non abbia già.
Quindi se Marcucci chiede il rimpasto nell’aula del Senato lo fa perché è convinto, o perché gli conviene: stabilito questo, ce ne frega anche il giusto di analizzare il pensiero politico di Marcucci: il problema è un altro. E temo che sia il Pd. Il Pd che si costerna, si indigna, si impegna quando il suo capogruppo chiede il rimpasto di governo è un partito che, come dice oggi Marcucci a Giovanna Casadio su Repubblica, chiede effettivamente da settimane un “chiarimento politico che rafforzi il governo”.

Poi però getta la spugna, con gran dignità. Diciamocela tutta: le letteresse accorate di Zingaretti ai giornali, le interviste in politichese tattico di Orlando, da ultimo anche i contropiede improvvisi di Franceschini sui provvedimenti anti Covid alla fine che cosa comunicano? Una costante insoddisfazione, nonché impotenza e frustrazione, del Pd verso il governo che sostiene. Anche nell’ultima direzione nazionale, effettivamente apertasi e conclusasi col rituale “pieno sostegno al governo” espresso dal segretario officiante e ieri “irritatissimo” col suo capogruppo, di che cosa si è discusso alla fine?

Sui giornali del giorno dopo abbiamo letto del “cambio di passo”, della “verifica” e del “rafforzamento della squadra”, guardiamoci negli occhi: che significa? In altre parole: che cosa vuole il Pd? Intendiamoci, non c’è niente di male a criticare il governo e a chiedergli un “chiarimento”; magari è anche giusto, per quanto stucchevole, tanto più nel pieno di una tragedia nazionale. Però, se mentre dici queste cose tu sei un partito che sostiene il governo, hai un problema: e allora dicci come pensi di risolverlo. Hai in tasca una soluzione? Pretendila.

Ma parlane dopo che sei sicuro di ottenerla, avendo in tasca l’accordo con Conte, o se preferisci la sua testa. Altrimenti non è che logori Conte: logori te stesso. Il Pd non è un partitino che sfrutta una rendita di posizione. Non può stare al governo con un piede fuori. E deve decidere. Il virus, là fuori, galoppa. Ci sono stati errori e ritardi, ma è sempre più chiaro che nemmeno Stati più forti e governi più esperti del nostro sono al riparo. Di sicuro, nelle settimane che verranno, nessuno avrà voglia di sapere com’è andata poi quella storia del “cambio di passo”.

In molti scommettono sul fallimento di un governo che può essere invece, di nuovo anche se in modo diverso dalla scorsa primavera, l’unica zattera alla quale il paese si aggrapperà. Su quale ipotesi scommette il Partito Democratico? Se pensa che Conte non ce la faccia può anche voltargli le spalle, anche se difficilmente si salverà poi dal naufragio. Diversamente, bisogna che si metta seriamente a remare e soprattutto non perda di vista la rotta. Perché altrimenti, il problema non è Marcucci. Il problema è che il Pd sta giocando col fuoco, e alla fine si brucia.

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Perché me la prendo coi puntacazzisti (con rispetto parlando)

Domenica sera, mentre il ministro Speranza parlava in televisione da Fazio, io seguivo l’hashtag #CTCF. Di tutti gli utenti che twittavano mentre seguivano la trasmissione, neanche uno (NON-UNO) che io ricordi ha capito che il ministro stesse istigando gli italiani alla delazione. Nessuno ha evocato la Stasi né l’Ovra, nessuno è andato a dormire scandalizzato. Nessuna polemica, zero. La mattina dopo, Speranza era trending topic su twitter, l’hashtag semiserio #cinesegnalazione era il primo, i meme col ministro in divisa da SS, le vignette coi vigili e i vicini spioni circolavano all’impazzata ed è stato così per tutto il giorno. Stamani, tutti i giornali di destra avevano l’editoriale sul ministro che vuole farci spiare dai vicini, naturalmente perché è “comunista”. Perché vi racconto questa cosa? Per dire che al di là di una frase più o meno infelice che può capitare a tutti* questa roba non avviene per caso, è costruita. C’è gente che ci lavora sopra. E altra gente che abbocca. Aspettate.

Sempre ieri, il giorno in cui il web italiano si è occupato della fondamentale questione dell’incitazione di Speranza alla delazione per far rispettare una norma, il divieto di feste private che – attenzione – alla fine nel decreto non c’è neanche se non come raccomandazione, circolava nelle chat e, sempre, sui social, un finto Dpcm contenente norme assurde. Però non troppo assurde, come ha spiegato accuratamente Fanpage.it. Assurde abbastanza per attirare critiche e ironie sul governo sui social e nelle chat o per terrorizzare o far incazzare la gente, ma scritte in modo verosimile e accurato, con tanto di riferimenti normativi e numero (ovviamente falso) di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, e accompagnate da altre già circolanti o plausibili, in modo da essere credute. Niente che qualsiasi professionista della comunicazione o della legislazione non potesse battezzare come falso grazie a una semplice occhiata in più intendiamoci, eppure molti professionisti hanno rilanciato e commentato il finto Dpcm con ironia o indignazione, perché sui social quell’occhiata in più difficilmente si dà. Un lavoro ben fatto insomma. Che richiede tempo, e qualcuno che ci lavori sopra. E qualcuno che abbocchi, appunto.

Da notare che per tutto il precedente pomeriggio ci eravamo deliziati con la differenza tra attività sportiva e attività motoria, e su quale delle due attività preveda l’obbligatorietà della mascherina, ma è durato poco perché, mannaggia, è intervenuta tempestivamente una circolare del Viminale a chiarire. Nei giorni precedenti ci si era molto baloccati sull’obbligatorietà della mascherina all’aperto anche in caso di isolamento totale (“e se cammino da solo in una strada deserta?” “ma allora non importa dai” “e se il vigile mi fa la multa?” “ma se c’è un vigile non è deserta!”, e così via).

Perché vi racconto queste cose? Perché qualcuno, e mi spiace, se l’è presa se in questi giorni ho giocato un po’ con l’hashtag #regazzini e ho sfottuto certe critiche al governo parlando di giornate di puntacazzismo, parola al cui significato potete risalire agevolmente anche se a prima vista esso potrebbe non sovvenirvi.

Ora. Io difendo questo governo per convinzione. Soprattutto difendo un ministro della Sanità di cui mi fido ciecamente (anche se non ci parlo da gennaio). Tuttavia non penso affatto che il governo o il ministro siano infallibili. Esistono le fughe di notizie, esistono le frasi infelici, esistono le cose che si potevano fare meglio o fare prima, esiste perfino che possa esserci una divergenza tra un ministro e l’altro o tra un ministro (nun ce provate, ripeto: non ci parlo da gennaio!) e il presidente del consiglio su come scrivere una norma. Quindi, facciamo così: hanno ragione i puntacazzisti su tutto, libero puntacazzismo in libero stato. Tuttavia voglio dire lo stesso due cose.

La prima. Imporre restrizioni alla vita delle persone è molto antipatico; un governo dovrebbe raggiungere i suoi obiettivi, fra cui quello di tutelare la salute delle persone, in altri modi. In questo caso specifico, che si chiama pandemia del Covid 19, si dà il caso però che un altro modo non c’è. La circolazione del virus non dipende dal numero di terapie intensive disponibili, dal Mes, dai vaccini anti influenzali. Tu puoi avere tutti i ventilatori che servono, distribuire tutte le mascherine del mondo, ma se la gente si ammassa, si ammala. E la cura non c’è, e le cure che ci sono a volte e per qualcuno non bastano. Raccomandare o imporre comportamenti che limitano la vita sociale delle persone non significa quindi voler punire i cittadini o scaricare su loro la “colpa” per qualcosa che il governo doveva fare e non ha fatto o non ha fatto bene. È una cosa necessaria e non è colpa di nessuno, a parte il maledetto virus. Anche la Merkel fa i lockdown. Anche chiunque. Ci sono attività, come andare al lavoro o andare a scuola, alle quali possiamo rinunciare solo in casi estremi, e ci sono attività che sono piacevoli ma delle quali per un po’ dovremo fare a meno. E certe cose non servirebbe neanche scriverle nelle leggi, se le pensassimo da soli.

E qui arrivo alla seconda cosa, che è più importante. A me, vedete, piace essere trattata da persona adulta. Non mi piace essere presa in giro da sconosciuti che confezionano simpatiche campagne social o fake news per le chat. E le cose mi piace capirle da sola. Anche se il governo a volte pasticcia un po’ quando scrive norme che nessun amministratore avrebbe immaginato mai di dover scrivere, io sono felicissima che la legge non specifichi troppo qual è la casistica precisa che devo rispettare per considerare una strada assolutamente deserta e togliermi legittimamente la mascherina. Non penso che il governo faccia queste norme per farmi prendere una multa, e non penso a come fregare il governo senza  prenderla. Non penso a organizzare una festa di nascosto dai miei vicini perché è vietato (non è vietato!) e-però-magari-loro-mi-fanno-la-spia, penso che effettivamente, se me lo dice anche il governo con tutto il Cts e il cucuzzaro, non è il caso di organizzare una festa. Non voglio però che il governo mi dica quante persone posso invitare a casa mia, perché magari capita il giorno che scoppia un acquazzone, ci inzuppiamo e devo dire proprio alle mie due amiche di salire un attimo ad asciugarsi anche se non ho la metratura (è un esempio ok? non ho mai avuto molta fantasia!). Non si tratta di questo. Non è questione di come non prendere la multa.

Si tratta di affrontare una sfida inedita e di farlo come comunità, e come persone adulte. Per questo me la prendo con chi ha il problema del calcetto. Mica perché non lo so che oltre che quello del calcetto avete problemi ben più seri, i ragazzi a scuola, l’attività da mandare avanti, il tampone da fare che c’è la fila, il vaccino per la nonna che non si trova. Ma perché penso che questa situazione meriti di essere affrontata con un altro tono. Perché è una tragedia, non un gioco di società. Un fatto mondiale non la sfida di Conte e Speranza.

Che poi penso alle nostre bolle social nel dire questo, mica alla gente là fuori che lo sa benissimo. A noi giornalisti, noi più o meno addetti ai lavori, noi piccolissimi influencer. Perfino un leader di partito domenica ha fatto il tweet polemico sulla mascherina mentre si corre. Invece di fare una telefonata a un numero che ha sicuramente in rubrica, capire meglio e poi dare una mano a tranquillizzare la gente. Perché non è un gioco di società, e nemmeno un giochetto politico. Siamo dentro una sfida che sarà ancora lunga e difficilissima, ma potremmo giocarcela in un clima molto diverso da questo. Ed è una cosa che dipende da ciascuno di noi.

* Ecco però (presa dalla bacheca facebook del mio amico Giorgio Piccarreta, grazie) la trascrizione letterale della domanda di Fazio e della risposta di Speranza per capire che il senso era comunque piuttosto chiaro e no, non si evocava lo stato di polizia, ma si ripetevano concetti usati piuttosto di frequente da questo ministro:
Domanda di Fazio:
“Ma come si fa a vietare una festa? Chi è che va a controllare e a bussare alle porte degli appartamenti per vedere se c’è una festa?”
Risposta di Speranza:
“Intanto, quando c’è una norma, va rispettata. In questi mesi gli italiani hanno dimostrato di non avere bisogno di un carabiniere o un poliziotto a controllarli personalmente. Ma è chiaro che aumenteremo anche i controlli, ci saranno segnalazioni. Io mi fido molto anche dei genitori del nostro Paese. Nel momento in cui si dà un’indicazione di natura formale in un Dpcm e si pone un divieto, io sono convinto che la stragrande maggioranza delle persone seguirà l’indicazione che è stata data.”

Quegli strani calendiani. Su un’operazione che non capisco, o forse capisco troppo

Pubblicato su Tpi.it

Non è tanto Calenda. Non è un pezzo su Calenda questo (il pezzo su Calenda oggi l’ha già scritto Marco Travaglio, leggetelo), è un pezzo su una domanda. Perché due politici di lungo corso e provata serietà, i miei amici Pierluigi Castagnetti e Mario Cavallaro, concordano che la candidatura di Carlo Calenda a sindaco di Roma sarebbe “una benedizione” per la città, tanto che il Pd dovrebbe nel caso “promuovere un triduo di ringraziamento”?

Ho provato a seguire il loro ragionamento e ne ho ricavato due risposte: la prima è che Calenda “sarebbe un grande sindaco”. La seconda è che “altrimenti rivince la Raggi”. Ora siccome io sono appassionata di politica, vorrei ragionare su questa cosa del perché dovremmo essere contenti di una candidatura di Calenda. Politicamente.

Sarebbe un grande sindaco? Può darsi. Come facciamo a saperlo però non lo so. Perché? Calenda ha fatto molte cose e spesso bene, ma ha mai amministrato una città o un territorio? Non mi pare. Ciò detto non è vietato pensare che farebbe bene il sindaco. Ma sulla base di cosa? Qual è l’idea di Roma di Calenda? Insieme a chi intende realizzarla? A quale forze, non solo politiche, la propone? Perché per esempio leggo sul Corriere che sta riflettendo se proporsi come candidato del centrosinistra e del Pd (di cui ha detto di tutto, compreso che i suoi elettori sono “senza dignità”) o candidarsi “da solo”, puntando cioè a far restare fuori dal ballottaggio il centrosinistra e il Pd e a farlo perdere come ha già provato a fare alle regionali: quindi che cosa significherebbe una sua candidatura? Si candida per fare cosa? Un sindaco non fa il sindaco in astratto, seduto sul trono delle buone pratiche. Oppure pensiamo che a Roma serva “un manager”, un supercommissario che metta a posto le cose coi suoi superpoteri? (Non ne abbiamo già avuto qualcuno di recente, a proposito? E com’è andata? Che ha vinto la Raggi, già). E un sindaco non fa il sindaco da solo. Posso avere qualche dubbio, così in partenza, sulla capacità di Calenda, uno che litiga con tutti e ha rotto con tutti, di costruire una squadra?

Dice il mio amico Mario che Calenda “è volitivo” (ah, beh). E soprattutto mi sgrida perché se faccio la difficile vuol dire che allora rivoglio la Raggi. Gli ho risposto che mi parrebbe sconsigliabile impostare così la battaglia: “votateci sennò vincono gli odiati grillini” è uno slogan che ha condotto il Pd verso le sconfitte più fragorose e inedite nel corso degli ultimi anni, e Roma non è certo l’ultimo dei casi. Ma capisco il sottotesto: la sinistra, per vari motivi (che sarebbe interessante analizzare in caso volessimo farci qualche altro amico), un big da candidare a Roma non ce l’ha, almeno Calenda potrebbe avere il fisico, va in tv, fa tweet volitivi, non è un settenano, ha fatto il ministro, ha buone relazioni, può trovare dei soldi, eccetera. Ok, ma ho una domanda. Deve anche vincere, no? Qualcuno sta pensando a come?

Perché io, anche dalle ultime elezioni in cui il Pd si è salvato nelle regioni e ha ricominciato a vincere ballottaggi dopo un tempo immemorabile, avevo capito (confortata anche da alcune analisi come quella dell’Istituto Cattaneo, in verità) che stesse cominciando a emergere il fatto che gli elettorati di Pd e 5 Stelle alla fine, in una battaglia contro la destra, si sommano da soli più di quanto gli stessi gruppi dirigenti siano capaci di fare; avevo capito che quegli elettorati sono perfino un po’ complementari. E mi pareva di aver capito che in vista delle comunali 2021 ci si attrezzasse a utilizzare di nuovo lo schema 2020, se non da subito nei ballottaggi. Tant’è che lo stesso Calenda aveva twittato, riconoscendo la validità dello schema politico a cui si oppone (lo fa spesso, è fatto così): “Non ci penso proprio a candidarmi a sindaco di Roma. Non prenderei un voto dall’elettorato Cinquestelle, quelli manco crocifissi mi appoggerebbero. Posso capirli”. E Calenda, faccio notare è uno che sostiene che “fare politica è mantenere la parola” (ne avevo parlato qui, mentre parlavo d’altro): altro bel modo di presentarsi, candidarsi dopo aver giurato e argomentato di non avere nessuna intenzione di farlo. La nuova politica, proprio.

Insomma, quale logica politica dovrebbe convincerci nella candidatura di Calenda, al momento per quanto se ne sa forse da solo o forse col Pd che a quel punto recupererebbe immagino la “dignità”, forse cercando i voti dei 5 Stelle o forse insultandoli, nonché, aggiungo, forse a favore della maggioranza di governo ma più probabilmente – viste le sue opinioni in materia – no? Non mi viene in mente nessuna logica, e quelle che mi vengono in mente non le condivido. Poi magari Castagnetti e Cavallaro mi convincono e lo voto, sono una persona ragionevole e all’occorrenza ho votato ben di peggio: non è una questione personale. Però prima di accendere ceri e di organizzare tridui mi piacerebbe capirlo, forse più che da Calenda da certi suoi sostenitori.

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Travaglio e Scanzi patrioti: prima analisi del voto

Ieri sera ero di buonumore e così, prima di andare a dormire, mi sono concessa uno di quei tweet kamikaze fatti apposta per scatenare tutti gli isterismi della Rete: ho scritto una cosa che ho pensato più volte negli ultimi giorni, cioè che Andrea Scanzi e Marco Travaglio sono due patrioti.

Ovviamente la parola patrioti l’ho usata in senso ironico (lo dico a beneficio dei molti commentatori offesi per conto di: Garibaldi, Nino Bixio, Carlo Pisacane et alias). Ovviamente il concetto invece era serio, ed è proprio quello che penso di questo risultato elettorale. Contro tutti i pronostici, contro i nostri stessi stati d’animo, contro molti dirigenti dei partiti coinvolti e una parte dei loro elettori, sicuramente contro l’opinione di tutti tutti tutti gli analisti politici dei giornali e della tv – salvo poche, pochissime e patriottiche eccezioni – nelle urne si è affermata una prospettiva politica. Uno schieramento capace di battere la destra e disegnare un nuovo bipolarismo, dando fra l’altro al paese la serenità necessaria ad affrontare una fase difficile.

Mi dispiace, mi piacerebbe che fosse vero, ma non è esatto dire, come da titolo odierno di Repubblica, che “il Pd ferma Salvini”. Salvini e la destra sono stati fermati, almeno nel loro dilagare e purtroppo non ovunque, da un progetto politico che sta troppo lentamente, ma più velocemente dal basso che negli accordi di vertice, facendosi strada. Ovviamente molto merito è del Pd, ma senza gli articoli militanti del Fatto quotidiano, senza il trasversalismo di una consapevolezza che cresce circa la necessità di dare forza a una proposta, senza il coraggio di posizioni contropelo come quella affermata un po’ a forza da Zingaretti e da Bersani sul referendum, ieri sera quelli come me non sarebbero andati a dormire di buonumore.

Contropelo, sì. Tra i sostenitori del No in nome dell’amore per la costituzione ci sono molti dei miei più cari amici, ma in troppi, mi spiace, sono convinti di avere dato un voto anticonformista e controvento. Erano loro, il vento. Il vento di praticamente tutti gli intellettuali e i commentatori e gli influencer e di chiunque abbia visibilità nel discorso pubblico di questo paese. Gli stessi che alzano gli occhi al cielo quando si nomina Conte, gli stessi che invocano Draghi a colazione pranzo e cena, gli stessi che si sentono sempre dalla parte della competenza contro i plebei, dalla parte del “riformismo” contro il “populismo”. Tutta una grancassa monocorde, che riempiva anche le nostre bolle social, pronta a sfruttare la nostra buona fede. Mentre il popolo, silenziosamente, era altrove. E sconsiglio vivamente di dire oggi che il 70 per cento degli italiani odia la politica e si disinteressa di difendere la costituzione, cosa che pure sarebbe conseguente a tante affermazioni lette nei giorni scorsi: non faremmo un bel servizio né a noi stessi né alla democrazia.

Ho visto anche io i flussi secondo i quali almeno metà della base elettorale di Pd e Articolo Uno ha votato No. Ma pensiamo a come saremmo andati a dormire ieri sera se il No avesse vinto. A maggior ragione questi numeri dicono che è stato giusto schierarsi per il Sì: si chiama intelligenza degli avvenimenti, o capacità di guidare il cambiamento, altrimenti dette: politica.

La giornata di ieri, le vere e proprie assurdità che abbiamo sentito in tv (stendo un pietoso velo, perché con chi vive su un altro pianeta è impossibile anche litigare, non dico capirsi), come più umilmente le reazioni al mio tweet, comprese quelle di autorevoli firme che mi accusano nientemeno che di “instabilità mentale”, dimostrano che c’è un livello di insofferenza per questa prospettiva politica e un grado di incomprensione troppo forti di quello che pensa e che vuole la gente in questo paese. Qualcosa che trascende la legittima critica e forse addirittura la politica. Non è simpatico dirlo, ma sarebbe il caso di rifletterci, per chi vuole continuare a considerarsi un analista o il rappresentante di qualcosa.

Il mio temerario tweet quindi non era l’adesione a un partito Scanzi-Travaglio che nemmeno esiste, e non significava neanche che io, Scanzi e Travaglio siamo uguali. Significava che da soli, noi di sinistra, non saremmo neanche in partita, e invece ci siamo. E questa sia chiaro non è una critica a un Pd che non ha affatto “fermato Salvini” da solo, ma anzi un apprezzamento per un gruppo dirigente che riconosce che non basta e anzi fa danno un Pd isolato intento a mostrare i muscoli. Tantomeno è un tentativo di arruolare due giornalîsti che ho già messo in suffìciente imbarazzo. Ho detto Scanzi e Travaglio come metafore, ok?

Non è un traguardo peraltro, è un punto di partenza. Restiamo ampiamente sotto ciò che è necessario che siamo, dopo ieri. Ma almeno a quanto pare abbiamo un popolo che ci indica la strada e cammina con noi.

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Perché penso che il “No sincero” sia un errore politico, e un paio di altre ultime cose

Ho già scritto parecchio sul referendum e non penso che aggiungerò molto altro, anche perché non ne posso più. Tuttavia ci sono un paio di ultime cose che sento il dovere di dire, anche perché non ne posso più.

Con grande affetto e rispetto per tutti quelli che sono su questa posizione, cioè per una buona parte dei miei amici, penso che il cosiddetto “No sincero” sia un errore politico. Mi spiego: se voti No perché pensi che questa riforma sfregi la Costituzione, per avversione alle motivazioni populiste e senza secondi fini politici sono due le cose che possono succedere:
– se il No perde, avrai contribuito a fare della difesa della Costituzione e del No ai tentativi di suo stravolgimento una battaglia minoritaria: oggi, dopo il 2016, è vero il contrario, e chiunque pensi di sfregiare la Costituzione sa che rischia di pagarla cara. E da domani?
– se il No vince, avrai fatto il portatore d’acqua in una battaglia sostenuta da tutti gli establishment politici, economici e mediatici di questo paese, tutta gente che non ha avuto scrupoli in passato a sostenere modifiche della Costituzione ben più radicali di questa e strizzare l’occhio a populismi di ogni genere e tipo. Saranno loro ad avvantaggiarsi del risultato, e saranno loro a gestire le prossime modifiche costituzionali.

Per questo ho deciso di votare Sì. Poche volte un ragionamento politico mi è stato più chiaro di questo. Punto.

Il resto dei miei argomenti li avevo già scritti qua, e successivamente qua: non si può difendere il parlamento contro il parlamento, non è uno sfregio alla Costituzione, è meglio un taglio lineare di una riforma organica, non è la buona politica contro il populismo, non è vero che non ci sono i correttivi, e se è vero che in un referendum la compagnia non te la scegli certe compagnie e i loro argomenti sono davvero inaccettabili. Questi sono i titoli, lo svolgimento è nei link. Solo altre due cose ho da dire.

  1. De Mita. Grave scandalo per un manifesto invero orribile dei 5 Stelle che accusano De Mita di essere “attaccato alla poltrona” perché alla sua età fa il sindaco di Nusco, bene. Quel manifesto fa schifo. Però vedete, io posso incazzarmi: perché io quando De Mita nel 2014 a ottantasei anni si è candidato a sindaco di Nusco la prima volta io lo scrissi che era una dimostrazione entusiasmante di amore per la politica. Però non ne lessi tanti di articoli e di commenti simili, e non solo dalle parti grilline o sul Fatto quotidiano, per capirci.
  2. Veltroni. Non nego che ci sia una coerenza nel suo sostenere il No per fiducia nel sistema bipolare e maggioritario, da esponente di un partito in cui molti votano No perché non è stata votata la riforma che introdurrebbe il proporzionale. Tuttavia, sapete come si chiamava il segretario del Pd nel 2008, quando il capogruppo del Pd al senato presentò una proposta di riduzione secca dei deputati a 400 e dei senatori a 200, identica a quella oggetto del referendum? Si chiamava Walter Veltroni, esatto. Io capisco difendere il bipolarismo, ma attenzione a diventare bipolari.