Monthly Archives: August 2020

Dove nascono i Briatore, e perché sono di destra. Sul Covid e non solo

È un po’ difficile non commentare, per il rispetto dovuto a una persona con un problema di salute, la nemesi di Briatore, ricoverato (forse) per Covid e con la responsabilità per decine di dipendenti del Billionaire positivi al tampone dopo un’estate passata – oltre che a divertirsi in discoteca e sui campi di calcetto, rigorosamente senza mascherina – a inveire contro politici e virologi che avrebbero “terrorizzato il paese” imponendo regole contro il contagio e limiti alla movida che comunque, da lui, non venivano rispettati. È un po’ difficile non parlarne dicevo, ma proviamo almeno a farlo seriamente e non a colpi di battute e tweet.

Da un tweet però volevo partire, anzi da una domanda intelligente di Antonio Polito – “Ma quando è successo che è diventato di destra negare il Covid e di sinistra credere nel Covid?” – e da una risposta assai condivisibile di Tommaso Labate – “Praticamente da subito, da quando si è capito che col Covid diritto alla salute e libertà d’impresa stavano per entrare in conflitto, senza mezzi termini. È la prima volta dalla caduta del Muro che la spaccatura destra/sinistra è così nitida ovunque”.

La risposta di Tommaso è lucida e va dritta al punto, e per come è formulata meriterebbe già così una bella riflessione sui nuovi doveri e i nuovi spazi che si aprono a sinistra nel mondo post pandemia, dove tutti gli schemi già scricchiolanti degli ultimi decenni, a partire dalla stessa definizione di “nuovo” e di “vecchio”, dall’idea di Stato diventata quasi ostaggio dei sovranisti, all’appropriazione della parola “libertà” da parte delle destre liberiste, appaiono ormai roba da buttare a tutti tranne che a qualche tifoso nostalgico di stagioni finite.

Tuttavia non so se questa labatesca osservazione così limpidamente “marxiana“, che individua nel conflitto tra diritto alla salute e libertà di impresa il discrimine del negazionismo, basti a spiegare una questione che ha anche aspetti culturali e alla fine mi pare perfino ideologici.

All’origine dell’atteggiamento di chi parte rifiutando la mascherina e arriva nei casi più estremi a negare, con diverse sfumature di grottesco, l’esistenza del virus a me pare ci sia innanzitutto una gigantesca questione di individualismo. Una difficoltà prepolitica, psicologica, perfino antropologica di introiettare l’idea che si può, e in questo momento addirittura si deve, cioè è proprio necessario, vivere prendendosi cura dell’altro, quello a noi vicino e quello che incontriamo per caso, esattamente allo stesso modo e per lo stesso motivo. Non è, questo, un giudizio morale. Non sto dicendo che chi è di destra sia più “cattivo” o chi è di sinistra sia più “buono”. Dico che c’è una capacità di sentirsi parte di una collettività, di una comunità, una capacità di “farsi prossimo” a sinistra che oggi serve molto, e che a destra non c’è. Non è un caso che tutte le destre del mondo – da Johnson a Trump, da Bolsonaro a Salvini – abbiano clamorosamente toppato l’approccio al problema, e non siano stati, non siano a tutt’oggi, in grado di lanciare il messaggio necessario: proteggetevi, proteggiamoci. Non potevano. Alla lunga questo diventa un altro bel discrimine, nuovo, per orientarsi e capire cosa è di destra e cosa è di sinistra: sarà prezioso.

E però, ultimo punto, in Italia a questo atteggiamento individualista che ha accomunato tutte le destre del mondo se n’è aggiunto un altro che definirei, a rischio di offendere qualcuno, razzismo culturale. Ed è qui che arrivo al Billionaire, e ai tanti casi che per carità di patria non nomino di irresponsabilità trasmessa dalla classe dirigente e dalle elite economiche con messaggi – dalla fuga dal resort della quarantena al rientro con l’aereo privato di papà per evitare il tampone – che alla fine hanno come sottinteso questo: ma secondo voi uno come me può farsi dire come vivere da un ragazzo di sinistra e da un avvocato di Foggia? Il non appartenere a nessuno dei “giri” giusti è un peccato d’origine che in tanti non perdonano a questo governo, e che spiega tanto di quello che ci succede di leggere ogni giorno. Forse, al di là dei limiti delle persone e delle formule, che ci sono sempre, è un vero problema democratico. Ma dovevo scriverlo, mannaggia, con più diplomazia.

Borgen, capire la politica guardando una serie danese

A molti pare che piacciano le serie tv che raccontano la politica in modo caricaturale e grottesco, tipo House of cards, e poi va a finire che producono i Renzi e i loro adoratori. A me invece piacciono le serie tv che la politica la raccontano com’è davvero, nel bene e nel male, e aiutano anche a capire cos’è, e aiutando a capire cos’è la politica aiutano un po’ a capire tutto. Come Borgen, che ho appena finito di vedere su Netflix. Ma anche – potrei dire – come West Wing (ma non parlerò di West Wing. West Wing è una fede, e ho troppi amici e potenziali lettori che ne celebrano il culto, la sanno troppo a memoria più di me, e insomma non oso, anzi già ho sbagliato a osare il paragone. Ma sappiate che se non avete visto West Wing, o non lo ricordate, o volete far finta di smettere di far finta di capire le citazioni, lo potete finalmente vedere su Amazon Prime). Ma dicevamo di Borgen.

Ecco, la visione di Borgen dovrebbe essere obbligatoria nelle redazioni dei giornali, ma anche per certi commentatori politici da social che ci tengono a ricordarci ogni giorno di non avere idea di cosa sia la politica, soprattutto adesso che diventa necessario come il pane un corso di aggiornamento su come funziona il proporzionale. Dovrebbero vederlo certi ex presidenti della Repubblica convinti che non si può dare l’incarico a chi non dimostra prima di avere la maggioranza in parlamento, cioè che non esistano i governi di minoranza e la possibilità di cercare i voti in aula su ogni provvedimento (sì lo so che il sistema è diverso, ma questa è la recensione di una serie non un manuale di diritto parlamentare, e comunque che aspettiamo tra tante riforme sceme a mettere anche noi la sfiducia costruttiva non si sa). Dovrebbe studiarlo quel politico di Twitter che senza aver mai fatto politica in vita sua ogni giorno dà lezioni a tutti su cosa sia la politica, e che qualche giorno fa ha scritto che la politica è “mantenere la parola”. Perché invece “la politica è persuasione”, come ho imparato anni e anni fa da Ciriaco De Mita. La politica (non il trasformismo, che ne è l’aspetto deteriore) è processo, è movimento, è creare le condizioni per il cambiamento, grazie ai rapporti di forza ma anche all’intelligenza degli avvenimenti, che ti consente di avere l’idea più forte, e vincente, come ho imparato da Aldo Moro ma anche un po’ da Birgitte Nyborg.

Birgitte in questa storia, girata all’inizio degli anni 10 (ma Netflix ha comprato i diritti e ora sta girando la quarta serie, che uscirà forse l’anno prossimo) è la prima donna primo ministro in Danimarca. Borgen, che significa “castello”, è il nome con cui i danesi chiamano il palazzo di Copenaghen dove hanno sede sia il governo che il parlamento. La politica danese è come la nostra, però a volte più civile, però a volte più feroce. E quindi, senza spoiler, ho da dire alcune cose.

– il proporzionale. Birgitte è leader dei Moderati, un partito “di centro” che a dispetto del nome non ha molto a che vedere con alcuni politici qui precedentemente evocati. Per esempio sulla gestione dell’immigrazione o sulla politica estera è molto a sinistra dei Laburisti, vuole riformare il welfare ma per conservarlo, ha un’impostazione molto ambientalista e contraria agli slogan anti tasse e agli aiuti a pioggia alle imprese. La potrei votare. Sapendo che poi lei potrebbe andare al governo con i Laburisti o con i Liberali, o anche stare all’opposizione. A seconda della possibilità di far contare le sue idee, su cui mi ha chiesto il voto. Nei limiti del possibile, facendo accordi e compromessi E decidendo di volta in volta qual è il limite. Capito come funziona, o come dovrebbe funzionare?

– il partito Laburista. Non è certo una serie di destra, Borgen. Ma il partito Laburista è il peggio. Un disastro. Un partito forte, da cui non si può prescindere. Ma con dirigenti spregiudicati in guerra uno con l’altro, perennemente alla ricerca affannosa e autoreferenziale del suo equilibrio interno, senza spinta propulsiva, con un complesso di superiorità non più giustificato dai risultati elettorali e di governo, non in pace con il suo passato, con dirigenti lontanissimi da chi dovrebbero rappresentare. Sembra il Pd, per quanto senza la cura Renzi. Il che mi fa pensare che il problema sia anche più grosso di come ci sembra, ahimé.

– la stampa. Interessante, molto. Per certi aspetti il rapporto col potere è più consociativo che da noi, per altri più libero e rispettoso. In ogni caso, meno sbracato. Anche qui, compromessi sì, rinuncia ai principi no. Ma con realismo. Se arrivate fino all’ultima puntata della terza serie segnatevi il dialogo tra il leader ormai spodestato dell’estrema destra (una specie di Bossi col fisico di Depardieu) e l’ex spin doctor di Birgitte su chi sia più cinico tra i politici e i giornalisti. Volevo applaudire.

– la scissione. Non voglio dire niente. Ma c’è da imparare molto su come fare una scissione e poi vincere le elezioni, da Borgen. Però anche su come raccontarla, considerandola come fatto politico e non personale, rispettandone le ragioni, chiamando i partiti col loro nome e non “ex” qualcosa. Insomma dovremmo prendere appunti in tanti, io per prima eh. Del resto, “Alcuni cambiano partito in nome dei loro principi. Altri cambiano principi in nome del partito”: e questo è Churchill, e l’ho imparata qui sta frase, anche se mi poteva servire prima.

– Phillip. E comunque se Phillip dovesse sentirsi solo, io ci vado a cena volentieri, altro che quell’inglese.

I furbetti del bonus Iva e il teorema della minigonna. (No, non è colpa del governo)

Sbagliare tutto, dalla prima all’ultima riga. Scrivono alcuni commentatori, con la tipica inclinazione isterica che, spiace constatarlo, caratterizza gli antipatizzanti di questo governo, costantemente offesi dalla sua stessa esistenza per fatto personale, che se i cinque parlamentari cosiddetti “furbetti” hanno preso i soldi del bonus iva di marzo, è perché una norma sbagliata glielo consentiva. Quindi non sarebbero loro “il problema”, ma appunto chi ha scritto la norma. 
È un po’ il teorema della minigonna: se ti capita è colpa tua che te la sei cercata. E però è tutto sbagliato. Provo a dire alcune cose.
– non c’è in Italia una legge che consente alle partite iva di chiedere 600 euro allo Stato senza averne bisogno. C’è stata, a marzo, una norma temporanea che ha consentito questo, pensata per far fronte a un’inaudita emergenza nel suo momento più drammatico, con i negozi e gli uffici chiusi all’improvviso e i numeri dell’epidemia che galoppavano. Prevedere tetti, requisiti e controlli per evitare qualche migliaio di “furbetti” avrebbe allungato i tempi e lasciato sul lastrico milioni di persone che lo erano veramente. Come spiegava Mario Draghi, bisognava “agire subito”. Fare la norma in quel modo è stata una scelta: in economia si chiama trade off, io sono abbastanza ignorante ma l’ho imparato dal tweet di un economista. Poi ho controllato su Treccani.it: “In economia, relazione funzionale tra due variabili tali che la crescita di una risulta incompatibile con la crescita dell’altra (…). Si parla di trade off quando si deve operare una scelta tra due opzioni ugualmente desiderabili ma tra loro contrastanti”. Cioè tra velocità ed equità, in questo caso. Decidere diversamente si poteva, certo, ma avrebbe significato tempi più lunghi e “burocrazia”. Si può non essere d’accordo, ma per me è stata una scelta giusta e in quel momento – ripeto, in una norma temporanea varata a marzo – anche “di sinistra”.
– chi ha chiesto il bonus iva non ha violato alcuna norma, quindi. Tuttavia non è moralmente riprovevole solo quello che è reato. È da infami chiedere allo stato soldi di cui non hai bisogno in un momento di emergenza nazionale, non serve una norma che lo sanzioni (credo peraltro, anzi mi risulta, che molti italiani lo abbiano pensato e si siano regolati di conseguenza). Vale per tutti i “furbetti”, che stiano in parlamento o altrove. E non vale solo per le partite iva. Ricordo, a fronte di cinque bonus da seicento euro per complessivi tremila euro, che risultano due-virgola-sette-miliardi-di-euro percepiti indebitamente da aziende che hanno continuato a far lavorare i loro dipendenti. Non lo dico per giustificare i cinque piottari, ma per mantenere il senso delle proporzioni, anche rispetto a un’agenda mediatica su cui non voglio aggiungere altro, qui.
– se uno si comporta in modo immorale, dare la colpa a chi non glielo ha impedito è immorale. La colpa, l’immoralità, è sua. Chi dice il contrario è un populista che fa (cattiva, e diseducativa) politica.
– tuttavia se sei parlamentare c’è un problema in più. Che aumenta l’inaccettabilità e giustifica la sanzione (morale) che ne deriva. Tu devi esercitare il tuo mandato con disciplina e onore: non è un’opinione, è la costituzione (articolo 54). Devi avere il senso del tuo mandato, del tuo ruolo e delle tue responsabilità. Non mi piacciono le gogne, ma ha senso voler sapere chi sono questi parlamentari. Perché noi cittadini abbiamo il diritto di dare su di loro un giudizio morale, e politico. Non nelle piazze, non in tribunale: alle elezioni.
– lasciate in pace i consiglieri comunali. Non è che è tutto uguale, non sono “tutti uguali”. Un consigliere comunale che percepisce un gettone da cento euro può benissimo trovarsi in difficoltà economiche con la sua attività, e ricorrere a un bonus a cui ha pienamente diritto. Il resto è antipolitica da strapazzo.
– lasciate perdere il referendum sul taglio dei parlamentari. Non c’entra assolutamente niente.