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Draghi parla in aula, il suo tributo alla politica

Pubblicato su Il Foglio

Le fanfare trionfanti che lo accompagnano da fuori, il profilo bassissimo che trasmette. Saranno tutte quelle mascherine e tutto quel nero e quei ministri e ministre indistinguibili, sarà che è un governo “senza aggettivi”. Si insedia un Draghi descritto come un supereroe, “l’italiano più autorevole nel mondo!”, si presenta un Draghi ancora senza volto.

Cos’è questo governo “repubblicano” (embè)? È l’esordio quasi umile, “la durata dei governi in Italia è stata mediamente breve”, o è il programma di legislatura, ancorché su diversi punti accademico e vago, che Draghi elenca con eleganza? È il governo dell’emergenza o il governo di una Nuova Ricostruzione, che paragonandosi a quello nato alla fine della guerra si dà il vertiginoso obiettivo di costruire una vera nuova sintesi senza comprimere le identità politiche?

Avete detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica – dice Draghi – e non è vero: nessuno deve fare passi indietro. (Apperò, è dalla sera che Mattarella è uscito alla Vetrata che ci spiegano che è successo per via “della crisi di sistema”). Finisce che Draghi ha un piano per la sanità che sembra quello di Speranza (che infatti è rimasto ministro), un piano per l’ambiente che sembra quello di papa Francesco, che sul Recovery il governo di prima ha fatto un grande lavoro che non sarà stravolto, che vuole proteggere i lavoratori e per fortuna il governo di prima ha lavorato per ridurre le disuguaglianze, e niente Mes, nemmeno nominato.

E alla fine è proprio un peccato che debbano tenere tutti la mascherina. Perché certe facce sarebbe stato divertente vederle, e certe altre facce si sarebbe dimostrato che non ci sono più: perse.

 

Non ci eravamo sbagliati, sarebbe stato il Pertini cattolico

A un certo punto erano tutti lì, stamattina. Senza essersi dati appuntamento, molti dei protagonisti di quei Giorni bugiardi del 2013 sono arrivati insieme per salutare Franco Marini alla camera ardente nella clinica Villa Mafalda.
Sergio Mattarella, con il gruppo dei suoi collaboratori più stretti, quasi tutti dirigenti e militanti di “quel” Partito popolare di cui lui era capogruppo alla Camera, risale veloce in macchina poco prima dell’apertura al pubblico.
Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza e Guglielmo Epifani, senza essersi messi d’accordo, si sono incontrati da qualche minuto all’angolo della strada. Scendono insieme, e il ministro ricorda “l’intervento di Guglielmo”: presentò lui, al Capranica, la candidatura di Marini. Rievocando con emozione un percorso comune nelle forze del lavoro, un incontro tra un credente e un non credente, gli stessi valori, un’idea di partito, una semplice verità: “È un fondatore del Pd”. Quel Pd che avrebbe davvero trovato se stesso quella sera, sulla via del ragionamento e dell’emozione di Epifani.
Poi la sequela incredibile di interventi contrari, i massimalismi insospettabili, i rancori puntuti. Una perdita di senso collettiva che resta ancora, anche al netto di qualche errore di gestione, inspiegabile. Il terrore per i tweet che bombardavano quella riunione da fuori, quel melodrammatico “Fermatevi!” del segretario regionale che bloccò l’Emilia Romagna. La deputata bolognese che dopo due giorni andò in lacrime da Bersani: “Segretario, che cazzata che ho fatto a non votare Marini”. E ormai in piena tempesta, il discorso eroico di Stefano Fassina: “Mio cognato ha cinquant’anni, fa l’elettrauto, non sa chi è Rodotà. Ma sa chi è Franco Marini, un difensore dei lavoratori!”.
Pochi passi, poco tempo per mettere in ordine i ricordi: si può già entrare. Bersani e gli altri, con Dario Franceschini, sono tra i primi. Franco Marini ha il cappello da alpino appoggiato sul cuore. Ci sono Sandro, suo fratello, e Davide, il figlio amatissimo di Marini e della signora Luisa. Non si può stare molto.
Dario è uscito prima, ma ha aspettato fuori. Si avvicina: “Non ci siamo sbagliati Pier Luigi, sarebbe stato un grande presidente”. “Il Pertini cattolico”, ripete come in quell’aprile di otto anni fa Bersani. “Un presidente di sinistra, vicino alla vita reale, amatissimo”, concordano i due. “Poche settimane dopo ci sarebbe stato il raduno nazionale degli alpini, te lo immagini che roba?”, sorride Bersani. “Ma la vita va a rovescio”, conclude Franceschini. Poi la storia dà torto e dà ragione, penso io.

Addio nonno Franco, grazie per tutta quella fiducia

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Lavorare per il Ppi di Franco Marini era come stare al luna park della politica. La prima volta arrivammo, io e Gianmarco, che lui scendeva sbrigativo le scale attorniato dal classico codazzo un po’ collaborativo e un po’ molesto. Era il prossimo segretario, l’emergente. Aveva quello sguardo fiero e quel passo dritto e veloce che ha avuto fino all’ultimo. Dimostrava vent’anni di meno di quelli che aveva (allora, un po’ più di sessanta). Era il primo politico importante che vedevo così da vicino. Io lo guardavo dal basso mentre scendeva con la pipa, ancora più piccola di com’ero. Mi faceva un po’ paura.
Ma poi scoprimmo che si fidava. Era facile: ti chiedeva una cosa e aspettava che la facessi: normale. Né gentile né scortese. Era brusco, non sorrideva quasi mai, magari non diceva grazie, ma ti invitava a mangiare un pezzo di pizza bianca con la mortadella nella sua stanza: goduria immensa, aneddoti assicurati, a volte cantava: vicino o mare…
Una sera che mi vide nel cortile del Gesù sudare sui pedali perché il mio motorino scassato non partiva, lo sentii chiedere al capo ufficio stampa: “A Piè, ma jeli stamo a dà du sordi a sti ragazzi”?
Grazie per tutta quella fiducia e tutta quella semplicità, nonno Franco. La volpe sotto l’ascella da lì in poi ce l’hanno avuta in tanti, tu lo sai quanto ti ho sempre voluto bene.