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Gli errori compresi in ritardo. Perché il renzismo è finito

Ho scritto questo per i giornali locali del gruppo l’Espresso (Il Tirreno, La Gazzetta di Mantova, Libertà, Il Mattino di Padova, Il Piccolo, La Gazzetta di Reggio, La Gazzetta di Modena, Il Messaggero Veneto, La Nuova Sardegna, La Nuova Venezia e altri).

“Abbiamo straperso”. Matteo Renzi ha puntato a presentarsi come uno che ha capito: niente “lanciafiamme” – congresso subito, primarie domani – e un’analisi anche severa, da leader consapevole e pronto a ripartire. Ma a ben vedere la sua autocritica – sulla personalizzazione, sugli errori nel rapporto col Sud, le periferie, i giovani, il web – non è stata mai sulla sostanza, ma solo sulla comunicazione. È convinto anzi che la storia renderà giustizia alle sue riforme. Ma davvero Renzi può tornare? Forse, ma le cose dette ieri non bastano. Perché dopo il 4 dicembre del renzismo non resta niente: non c’è più una linea politica e non c’è più un racconto che parli all’Italia, a questa Italia che il 4 dicembre ha svelato. Continua a leggere

Che cosa succede, adesso, nel Pd

Ho scritto questo per i giornali locali del gruppo l’Espresso (Il Tirreno, La Gazzetta di Mantova, Libertà, Il Mattino di Padova, Il Piccolo, La Gazzetta di Reggio, La Gazzetta di Modena, Il Messaggero Veneto, La Nuova Sardegna, La Nuova Venezia e altri).

Venerdì sera, mentre piazza della Signoria sfavillava dei riflettori delle dirette tv sul comizio in cui il premier annunciava la “rimonta bestiale” del Sì, nella Casa del popolo di Pontassieve, a pochi passi dalla strada in cui vive la famiglia Renzi, un centinaio di persone discuteva delle ragioni del No. Gente che ha pagato prezzi politici e professionali anche alti negli ultimi tre anni, e ha scelto di essere “contro” nonostante qualcosa da perdere e una pressione quasi minacciosa. Usciti dal partito o con un piede fuori ma che volevano ritrovarsi, ricostruire: “Siete stati eletti insieme, non come avversari”, dicevano a Filippo Fossati e Giovanni Paglia, deputati di Pd e di Sinistra italiana. Più lo sguardo al futuro che l’ansia per il risultato: “È vero che noi siamo pochi e in trincea nel partito. Ma io quando parlo con le persone normali, coi miei colleghi, al supermercato, trovo solo gente che vota No. E No convinto eh?”. E insieme, data la situazione, una certa passionale serenità: “Ma perché dicono che è stata una campagna brutta? È stata bella. A me piacciono sempre le campagne elettorali”. Continua a leggere

Il romanzo del proporzionale

Ho scritto questo per i giornali locali del gruppo l’Espresso (Il Tirreno, La Gazzetta di Mantova, Il Mattino di Padova, Il Piccolo, Il Centro, La Gazzetta di Reggio, La Gazzetta di Modena, Alto Adige, Il Trentino, Il Messaggero Veneto, La Nuova Sardegna, La Nuova Venezia, La Città di Salerno e altri).

Come nei romanzi, e a dire il vero come nella vita, anche in politica il passato torna sempre; soprattutto se non ci fai i conti. E c’è davvero qualcosa di romanzesco, o di psicanalitico, nell’improvvisa fiammata che ha riportato sulla scena il sistema proporzionale.

Paradosso delizioso, è stato proprio il Movimento 5 stelle a innescare la miccia: sganciandosi dalla trappola tra coerenza e convenienza, nel dilemma se opporsi o fare buon viso a una legge – l’Italicum – che, voluta dai loro avversari e da loro violentemente contrastata, ora sembra doverli accompagnare alla vittoria, i grillini hanno rilanciato portando all’estremo la parola d’ordine dell’uno vale uno, dello scettro ai cittadini; noi siamo per proporzionale e preferenze, hanno detto.

Come per un riflesso condizionato, dal Pd è scattata l’accusa sanguinosa: allora volete tornare alla prima repubblica! E pensare che la proposta pentastellata in realtà, prevedendo collegi piccoli e nessun riparto nazionale, somiglia, più che al sistema in vigore in Italia fino agli anni 90, a quel sistema spagnolo che tanti consensi ha avuto proprio tra i Democratici, e in particolare nell’area del Pd che oggi più difende l’Italicum. Sistema, quello spagnolo, sul quale pure molto si poteva dire e criticare, visto lo stallo che due successive elezioni in pochi mesi non sono riuscite a sbloccare in quel paese. E invece no: sulla prima repubblica si è affannato a dichiarare il Pd. Favorendo su giornali e social network l’uscita allo scoperto di qualche voce – non solo del passato – che tutto sommato, e soprattutto nel confronto col presente, una lancia per i vecchi tempi è disposta a spezzarla.

La verità è che la proporzionale, come in un romanzo o come nella vita appunto, mette tutti di fronte alle loro contraddizioni. Innanzitutto i 5 Stelle, certamente: perché con un sistema non maggioritario e senza premi i partiti, anche i partiti che arrivano primi alle elezioni, sono costretti a dialogare in parlamento, a cercare maggioranze, a fare alleanze. Ma anche l’alzata di scudi del Pd è contraddittoria, e non solo perché l’anima proporzionalista nel Pd è forte, sia nell’area di ascendenza Dc che in quella post comunista, ma perché il rapporto col passato, in questo partito quasi totalmente renzizzato al vertice ma molto inquieto nella base, è un tasto delicato. Terracini e Dossetti, Togliatti e Calamandrei sono stati tirati per tutte le giacche possibili per motivare la modifica del bicameralismo che sarà oggetto del referendum costituzionale. E d’altro canto Renzi per sostenere le ragioni del Sì, ripete spesso che “prima di lui” si cambiava governo quasi ogni anno; e spesso gli viene risposto non a torto che negli ultimi vent’anni la stabilità dei governi è stata grande (uno peraltro l’ha fatto cadere lui), mentre negli anni del pentapartito la caduta di un governo era frequente ma in fondo non così destabilizzante.

Ma forse la verità è che la proporzionale non mette tanto in discussione il giudizio sulla prima repubblica, ma sulla seconda; e può darsi che anche su questo – come in altri casi – il Movimento 5 Stelle intuisca qualcosa che poi non necessariamente sarà capace di tematizzare. Non sarebbe invece ora di chiedersi che cosa ha prodotto il mito dell’uomo solo al comando? Del maggioritario esasperato, degli slogan secondo cui si deve sapere la sera stessa delle elezioni, ma che dico un minuto dopo la chiusura delle urne, chi ha vinto, chi è il capo? Questa retorica (appunto) anni 90 ha reso la politica più efficiente? Le decisioni più veloci? I politici più stimati? Ha davvero semplificato il sistema? Lo ha rinnovato? Ha contrastato mali antichi come il trasformismo o la corruzione? Di più: questa retorica anni 90 (ripeto) è ancora, oggi, il nuovo? È l’orizzonte verso cui va la politica, negli altri paesi europei e nel mondo? Qui non si tratta, intendiamoci, di sognare di ripristinare un passato remoto peraltro spesso mitizzato. Era un altro mondo, un’altra storia, oltre che altri leader, altri partiti, altri parlamenti. E tuttavia sarebbe utile, penso, alla politica italiana, guardarsi indietro con un po’ più di calma e senza i vizi della propaganda, distinguere tra passato e passato, tra errori e passi avanti. Come nei romanzi, e come nella vita, è quello che si fa per diventare adulti.