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Leggende metropolitane: Renzi che portò il Pd nel Pse

Guardate è un dettaglio, lo dico io per prima. Infatti la maggior parte delle volte ormai faccio finta di niente anch’io. Tuttavia esiste anche l’amore di verità, alla fine. Il punto è questo: anche Ezio Mauro, nel suo bell’editoriale che tutti dovremmo leggere e discutere, oggi dice che “Renzi ha portato il Pd nel Pse”. La stessa cosa avevo sentito dire due sere fa in tv, da Fazio, da Massimo Giannini. Sono giornalisti importanti, persone serie, uomini colti. Per questo dico: ma ci credono davvero?
Io quella vicenda la conosco bene, l’ho raccontata da giornalista, ma non penso di avere più elementi per capirla di Giannini e Mauro. Per questo vorrei ricordare brevemente e molto superficialmente alcuni fatti. Fatti, non opinioni mie. I fatti sono questi: che il congresso del Pse a Roma, che si è svolto il primo marzo scorso, era stato convocato già durante la segreteria Bersani, ed era stato annunciato e organizzato durante la segreteria Epifani. Anche se qualcuno, non certo Mauro e Giannini, pensasse che una cosa del genere si decida e si organizzi in una settimana, ci sono le agenzie e gli archivi a dimostrare il contrario.
Il percorso lungo e difficile del Pd verso il Pse era iniziato già da tempo. Piero Fassino da segretario ancora dei Ds, si era adoperato al congresso di Oporto (dicembre 2006) per spiegare ai compagni del suo partito l’imminente costituzione di un nuovo partito di centrosinistra in Italia. In quel congresso, accolto come una star e invitato con un entusiasmo che creò in Italia anche qualche imbarazzo (“Join us, Romano!”) a unirsi alla famiglia socialista dal segretario Rasmussen, era intervenuto il presidente del consiglio italiano Romano Prodi.
Un altro passo importante lo fece un segretario non socialista, Dario Franceschini, dopo le elezioni europee del 2009, tagliando la testa al toro del “dove vi siederete in Europa” e decidendo, non senza dover fare qualche coraggiosa forzatura nel partito, che tutti i deputati europei del Pd si sarebbero iscritti, senza aderire al partito, al gruppo del Pse. La componente italiana venne affidata alla guida di un altro non socialista, David Sassoli, che si è adoperato per costruire un percorso comune.
Durante la segreteria Bersani, Sigmar Gabriel e Francois Hollande, (i leader socialisti dei due principali paesi europei) hanno fatto comizi nelle piazze del Pd e i vertici socialisti europei hanno partecipato ogni anno alle feste democratiche. Ci sono state centinaia di viaggi e di riunioni in tutto il mondo, organizzati da Lapo Pistelli e Giacomo Filibeck. Roma ha ospitato due volte i progressisti di tutto il mondo – democratici americani compresi – che insieme ai socialisti europei hanno dato vita alla Progressive Alliance, la conferenza mondiale dei progressisti, socialisti e non. In questo contesto si sono create le condizioni per superare anche le ultime obiezioni all’adesione del Pd al Pse, o comunque per portare tutto il partito verso quell’esito.
Quando dico “ultime obiezioni” intendo riferirmi agli ex Margherita e soprattutto all’area rutelliana, e cioè ai renziani. Mentre infatti personalità come Franceschini, Pistelli e Sassoli hanno lavorato per avvicinare il Pd al Pse, nel mondo renziano (e in un altro pezzo di ex Ppi, quello vicino a Beppe Fioroni) si sono accumulate sempre le resistenze più forti. Che poi, a congresso Pse convocato e deciso, il post ideologico Matteo Renzi abbia dichiarato, da candidato alle primarie, di non avere obiezioni all’adesione al Pse e che poi, divenuto segretario, non abbia rimesso in discussione le decisioni prese, va benissimo e per quanto mi riguarda è un suo merito. Che gli ultimi resistenti, tutti renziani, a parte un paio di eccezioni, abbiano poi votato in direzione a favore di un passo che, gliel’avesse chiesto un altro segretario, avrebbe provocato minacce di scissione e suicidi di massa, affari loro.
Tuttavia i fatti sono stati questi. È così che è andata. Ripeto non per amore di polemica. Ma solo per amore di verità: lo sanno tutti i giornalisti seri, ed è così che la dovrebbero raccontare.

Così si uccide l’Ulivo, e Renzi è l’assassino

A rivederla in tv, l’ultima sequenza della Leopolda 5, quella in cui il segretario del mio partito aizza il suo pubblico e chiama la standing ovation contro il mio partito, la sua storia e i suoi protagonisti, assicurando che “non sarà consentito” a costoro di “riprenderselo”, continua a provocarmi un’ondata di pensieri e sensazioni. Sono diverse ore che rimando l’appuntamento con la tastiera, perché non si dovrebbe scrivere quando si è arrabbiati. Ma ci devo provare.
Credo che non capiti niente del genere in nessun partito al mondo. Ma va bene ho capito: Matteo Renzi vuole solo applausi, vuole liberarsi da chiunque possa offuscare il suo splendore, considera insulto ogni critica, tratta come un nemico chiunque non si allinea al suo insindacabile – per quanto variabile – giudizio su cosa sia giusto, bello e buono, su quale sia il cambiamento che serve all’Italia. Dichiara di rispettare e poi disprezza. Non rispetta niente in realtà Renzi, non riesce a rispettare niente di quello che non può sottomettere. Purché tutto ciò abbia una caratteristica: stare dalla sua stessa parte. Se sono avversari no, va bene: allora Renzi diventa ragionevole, cordiale, capace di mediazione. Non so neanche se lo faccia apposta, se sia carattere o strategia. Tuttavia, ecco, mi chiedo: qual è la strategia di Renzi?

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Partito della nazione? Io preferisco cambiare il mondo

Sulla direzione di ieri gli amici del sito Intelligo News mi hanno fatto questa intervistina che vi invito a leggere, il titolo è un po’ forte ma diciamo che avevo detto che “se lo intendiamo così”, come sembra di capire, il partito della nazione che ha in mente Renzi è il contrario del centrosinistra e dell’Ulivo, secondo me.
Una senatrice ieri in direzione ha detto che il Pd è un partito aperto, ma così aperto, che “raccoglie tutto quello che c’è in giro”. Ora, a parte che detto così sembra l’Ama, a me non è che piaccia così tanto, quello che c’è in giro. Io, che ci volete fare, sono una che vuole cambiare il mondo. Per questo mi appassiona la politica. E per questo sono una persona di sinistra.
Su ieri c’è anche altro da dire, io penso che sia stata tutto sommato un’occasione persa. Un’occasione di parlarsi con verità, soprattutto. Come facciamo a fare il bipartitismo con tre poli, per esempio (grazie a una legge elettorale che sarà approvata insieme al terzo, peraltro). Cosa ci differenzia dalla destra, ammesso che. Che cos’è la Leopolda (“veniteci anche voi” no, non è una risposta). Come si fa politica senza soldi e senza dipendere da chi ce li ha e te li dà. Questo calo degli iscritti, se c’è o no. E soprattutto se ci dispiace o è una bella cosa. Come si fa a dire “la prossima volta che eleggiamo il presidente della repubblica non dovremo farci condizionare da twitter” dopo aver capeggiato la rivolta su twitter. Cosa vuol dire disciplina, cosa vuol dire lealtà. Però è stato detto che era un inizio, la riunione di ieri. Non ho capito bene come si prosegue, ora. Ma confidiamo.

A proposito, molte cose che penso e che comunque trovo interessanti sul partito della nazione le trovate qui.

Ma non è oggi il compleanno. #buoncompleannoPD

Secondo me non è oggi. Secondo me non è giusto che sia oggi. Oggi è il giorno in cui Walter Veltroni, sette anni fa, ha vinto le primarie, le prime, del Pd. Io l’avevo votato, io le ho vinte le primarie quel giorno. Ma quelli che hanno perso? Sono meno Pd di me?
Non lo dico per polemica, una volta tanto. Non lo so quale sarebbe una data migliore di questa. E però mi sembra indicativo il fatto che ormai sia passata l’idea che si festeggia oggi. Indicativo di un partito che non trova neanche la sensibilità e la generosità per riconoscersi e festeggiare in un giorno che sia stato di vittoria per tutti. Di un partito in cui ancora nel discutere ci si zittisce con l’argomento (falso) “voi avete sempre perso”, come se le sconfitte fossero di qualcuno, e le vittorie di qualcun altro. Di un partito in cui chi la pensa diversamente viene vissuto con insofferenza (e già posso scommettere sull’insofferenza con cui verrà accolto questo post).
Quindi buon compleanno, Pd. Sono stati sette anni meravigliosi, lo dice una che ti ha scelto dall’inizio e da prima dell’inizio. Che ha fatto sempre tutto quello che ha potuto per aiutarti a crescere. E che pensa che sì, sei grande: ma non sei ancora adulto.

Al Circo Massimo, un po’ come alla Festa dell’Unità

Questo post è stato scritto insieme a Stefano Di Traglia

Siamo andati a curiosare al Circo Massimo. Non ci hanno insolentito né cacciato, quindi o non siamo né Kasta né giornalisti o comunque non contiamo niente. Bene.
Tutto sommato, questa cosa del Movimento 5 stelle assomiglia molto a una Festa dell’Unità, con qualche differenza, anche a sorpresa. C’è un giornale, si chiama “il Movimento”, ma loro preferiscono chiamarlo “volantino”. C’è qualche contraddizione, gli stand dei No tav accanto a quelli istituzionali dei gruppi parlamentari. C’è molta carta, molti gadget, molta identità: “Tu chi sei?”. Niente, sono venuto a guardare. “Ma di dove sei?”. Niente, di Roma. “Ma di che circolo?”. Ma no, niente. Lo trovano strano.
Lo slogan della festa è “La buona notizia”: che, ammetterete, è molto bello e funziona. Da almeno duemila anni.
C’è la stessa musica che alle feste dell’Unità, c’è uno spirito molto simile, non ci sono stand commerciali, c’è forse più militanza e più territorio. C’è dietro, sicuramente, una struttura organizzata. E si vede. Continua a leggere

Colpirne uno per educarne centouno

Io penso che non votare la fiducia a un governo sostenuto dal proprio partito sia un fatto grave. Lo dicevo quando a dirlo ci si prendeva di “stalinista” e si alimentava l’indignazione degli indignati che occupavano i circoli (ma dove sono finiti, a proposito?) e lo dico anche adesso. Penso che sia giusto che il gruppo del senato (ecco, il gruppo del senato magari, non la segreteria pd cioè lo staff del segretario) si riunisca e valuti eventuali conseguenze politiche di quanto è avvenuto sul Jobs act.
Lo dico anche perché ho molti amici che in nome di questo hanno votato la fiducia a un testo di legge che non era in nessun programma elettorale, che va contro le loro idee e i loro principi e che non hanno avuto neanche la possibilità di discutere, e non vorrei essere al loro posto. Lo dico anche perché, fossi stata al loro posto, probabilmente anch’io avrei votato la fiducia, dato che penso che è troppo comodo salvarsi l’anima da soli.
Detto questo, però, questo delirare stentoreo di “punizioni esemplari” quando non addirittura di “colpirne uno per educarne cento” penso che dovrebbe far riflettere un pochino. Anche perché, considerando i pulpiti da cui vengono le prediche, è difficile dire se certe minacce siano più agghiaccianti o più ridicole. Come sa chiunque in questi anni non dico abbia voluto un po’ bene al Pd, ma almeno abbia letto qualche giornale. E conservi un minimo di memoria e raziocinio anche in questi tempi di arroganza smisurata e conformismo vigliacco.

Lo storytelling truffaldino della “sinistra conservatrice”

Più che interessarsi della sostanza – abolire l’articolo 18 – che come qualcuno comincia a sospettare al presidente del consiglio sta a cuore fino a un certo punto, e infatti non spiega mai bene né perché né come, a me pare che Matteo Renzi e i renziani più stretti vogliano raccontarci una storia.
La storia (storytelling, direbbero loro) è quella di un’Italia ingessata, vecchia, imbrigliata dai conservatorismi della sinistra (la “vecchia” sinistra of course, ma a Che tempo che fa al premier è scappato pure un mezzo insulto alla “sinistra” senza aggettivi, cosa che ha fatto sobbalzare pure Fazio, che ha dovuto ricordargli, ahem, che il capo della sinistra è lui) e del sindacato. Insomma quella “sinistra conservatrice” che si è sempre opposta alle riforme è il motivo per cui siamo messi come siamo. Mica come Blair, mica come Clinton: sto schifo di sinistra che ci è toccata a noi.
Questa storia, vorrei far rispettosamente notare, non solo è precisamente la storia raccontata per anni dagli avversari politici della sinistra e dagli editorialisti dei giornali di centrodestra. Questa storia, alla quale purtroppo mi pare anche molti di noi finiscono col credere, è proprio falsa.
L’Italia in questi vent’anni non è stata governata dalla sinistra conservatrice, bensì da una destra piuttosto caratterizzata come tale: una destra molto di destra, ecco. Anche perché scusate ma qualcosa non torna: se questa vecchia sinistra plumbea perdeva sempre e ha sempre perso e anzi le piaceva perdere, come dice il premier dall’alto della sua maggioranza misteriosamente originatasi dall’ennesima sconfitta, non vi pare un po’ strano sto fatto che poi sia stata sempre al governo? E infatti i presidenti del consiglio non si sono chiamati Bindi, Bersani, Cofferati e Camusso, se ci fate caso, bensì, prevalentemente, Silvio Berlusconi. Lo ricordate anche voi ora che ci pensate, non è vero?
Lo stesso governo del professor Mario Monti (che non era Che Guevara) era sostenuto da una maggioranza di larghe intese in un parlamento in cui largamente prevaleva la destra (e già che ci siamo è stato fatto per mandare via Berlusconi, non per fare il governo con Berlusconi).
Non solo: quando la sinistra ha governato (perché qualche volta la sinistra in questi vent’anni ha anche vinto, mentre Renzi era distratto) non ha conservato: ha innovato e riformato. Sanità, scuola, trasporti, commercio, energia, gas, professioni, pubblica amministrazione tra le altre cose. Nello specifico, essa ha precisamente introdotto flessibilità nel mercato del lavoro (pure troppa, dice oggi – anzi domenica scorsa al Corriere – non a caso D’Alema, uno dei protagonisti indiscussi delle brevi stagioni della sinistra al governo). Quindi incolpare la sinistra per le rigidità del mercato del lavoro (rigidità che, dimostrano i dati OCSE usciti sui giornali, sono comunque nella media se non inferiori a quelli degli altri paesi europei) è una balla, storicamente infondata e insensata.
Questa è la storia vera, il resto sono chiacchiere per una politica furbetta che rischia di farci rompere l’osso del collo a tutti, non solo a qualcuno. E in questo senso sono inaccettabili dentro un partito e dentro una comunità, che un’idea condivisa di se stessa ce la deve comunque avere.

Quel ramo del partito emiliano

Stefano Bonaccini è il candidato del Pd alla presidenza della regione Emilia Romagna, auguri.
Bonaccini è stato votato da 34.751 persone. Aveva un solo avversario,
Roberto Balzani, che ha preso 22.285 voti. Ieri hanno dunque partecipato alle primarie del Pd circa cinquantamila persone.
Nel 2009, con due avversari, lo stesso Bonaccini era stato eletto segretario regionale alle primarie del Pd con circa 190.000 voti. Avete capito bene, centonovantamila voti li aveva presi lui, senza contare quelli degli altri due candidati.
Gli iscritti del Pd emiliano, dati storici perché dati ufficiali sul tesseramento di quest’anno non risulta che esistano, sono circa settantacinquemila.
Chissà se qualcuno prima o poi si chiederà com’è messo il Pd, magari non solo in Emilia Romagna dove di solito sta meglio che altrove. O se bisogna aspettare che un campione casuale e numericamente scarso di cittadini, invece di eleggere il candidato favorito e appoggiato dal segretario nazionale, com’è avvenuto stavolta, designi, com’è perfettamente possibile e probabile, qualche illustre rappresentante di qualcos’altro a rappresentare il Pd.
Sarebbero cose interessanti da chiedere al segretario del Pd dell’Emilia Romagna, ma guarda caso è Bonaccini e ora avrà altro da fare. O al responsabile organizzazione del Pd nazionale, ma guarda caso il plenipotenziario di Renzi, Lorenzo Guerini, ha assunto anche questa delega.
Ma va tutto molto bene, perché la gente ci vota, dicono. Seduti comodamente sul ramo che stanno segando.

Arance e martello (Te lo ricordi, il Piddì?)

Non so se Diego Bianchi abbia fatto un film sulla politica o un film su Roma. Che poi, Roma, vanne a parlare senza la politica. E mica nel senso dei palazzi e delle auto blu che scorrono nella città cinica che aspetta che tutto passi, come sempre. Naaah, questo è quello che pensa chi non ne sa niente, di Roma. A Roma la politica è una passionaccia, è come il calcio. (Come Totti, per chi è devoto, e Diego è devoto).
Roma, per esempio, è uno dei pochi posti dove ci sono ancora i fasci. Ma veri, eh. Fasci di padre in figlio, con la maglietta nera e il tatuaggio con la svastica, fasci che si commuovono a incontrare altri fasci. Fasci che fanno il sindaco, può capitare, a Roma. Fasci che “danno foco alla sezione”, anche.
E poi ci siamo noi, loro, insomma: il Piddì. Il Piddì nel senso che avete capito: Togliatti Longo Berlinguer D’Alema Veltroni, Veltroni D’Alema, Franceschini, Bersani, Totti. O meglio, c’era. Perché il film di Diego ha una terribile sfiga, per un film così: è vecchio. È già nostalgico. Non c’è più Alemanno, non c’è già più quella Roma, e soprattutto non c’è più il Pd.
Vecchio e anche un po’ profetico. Perché Arance e martello non è mica un santino della militanza, scordatevelo eh, e poi c’è già tutto. C’è perfino una Maria Elena Boschi: altro stile, meno ministeriale, ma stesso effetto sui compagni, se mi capite. Si capisce che poi qualcosa andrà storto, che non sarà Totti il successore di Bersani, come sarebbe giusto tranne secondo i laziali (un laziale in sezione, roba da matti!). Che qualcosa già sta andando storto.
E però il Pd, nel film, è bellissimo. Voi non ci crederete, ma nel 2011, nella torrida estate del 2011, c’era davvero gente che metteva giù i banchetti nei mercati rionali per raccogliere le firme per far dimettere Berlusconi. Non perché pensasse che le firme lo avrebbero proprio fatto dimettere, e nemmeno (solo) perché glielo aveva chiesto il partito: ma perché ci credeva. Perché credeva che in sezione ci si va per “radicarsi in un territorio”, e capiva che era questo quello che il partito gli chiedeva, e ne traeva le conseguenze. Ecco, Diego Bianchi, da vero militante che non milita più da anni (autodefinizione perfetta), in questa sceneggiatura ne trae poi le conseguenze fino in fondo, esplorando i confini del grottesco, del surreale, del poetico e del comico. Fa ridere, fa piangere, fa ridere e piangere insieme spesso, e non so cosa possa desiderare di più chi racconta una storia.
A ripensarci poi, fuori dal cinema, resta il pensiero che quella storia, almeno l’inizio e il pretesto di quella storia, è una storia successa davvero in tante case, in tante strade, in tante città in cui persone, volantini, banchetti e bandiere, per mesi, hanno chiesto agli italiani di dire che non volevano più essere governati da Berlusconi. Uno sforzo enorme, fatto insieme, per raggiungere un obiettivo, insieme. Cittadini e politici, militanti e parlamentari. Ognuno col suo compito, sentendosi parte di un soggetto collettivo. E che i protagonisti di quella storia, gli ultimi dei mohicani della militanza politica, sono stati sfottuti, irrisi, oppure messi sotto silenzio (non si sa cosa è peggio) non solo dagli avversari politici ma anche, con rarissime eccezioni, dai giornali e dalle tv. Perché quel Pd non era cool, non faceva notizia.
E poi sono stati traditi. Traditi da chi non ha avuto (abbastanza) fiducia da dare (abbastanza) forza al Pd, e poi traditi dai loro rappresentanti, che non sono stati all’altezza delle responsabilità che avevano comunque avuto, nelle due notti prima del no a Marini, uno di noi, presidente, e poi del secondo tradimento, quello dei 101. E quindi non so se si son stufati, o se hanno cambiato idea, o verso: in ogni caso li capirei.
E però sapete che vi dico? Era fantastico, quel Pd. E io so che c’è ancora.

Ps: non vorrei concludere questo pezzo senza una menzione speciale per la genialità dell’assessore QUATTORDICINE. (Questa la capiamo solo noi di Roma, ed è peggio per voi)

Il video di Renzi: qualche volta un giornalista servirebbe

Disintermediando e disintermendiando, alla fine del videomessaggio di Renzi secondo me un giornalista sarebbe servito. Invece di andare in visibilio per il “ritmo” e per la scelta della colonna traiana come sfondo, il collega avrebbe potuto chiedere: “E quindi, perché volete abolire l’articolo 18?”. Perché lui, il premier, ci dice che Marta aspetta un bambino e Giuseppe è precario, ma dell’articolo 18 NON NE PARLA. Niente. Nemmeno un accenno al motivo per cui il governo ritiene, se lo ritiene, di dover abolire per i nuovi assunti il diritto di non essere licenziati senza una giusta causa. Proprio zero. Se il tema di ieri era l’articolo 18, il video di Renzi è totalmente fuori tema. Scusate, ma a volte un giornalista servirebbe. Se facesse il mestiere del giornalista, chiaro.