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Critiche agli assenti e accuse agli avversari: ma il Pd vuole davvero cambiare?

Pubblicato su The post internazionale

Il dibattito nella direzione Pd, con alcune pregevoli eccezioni, ha dimostrato che dopo il dramma dei primi giorni post voto il partito sta perdendo di vista la dimensione della sua sconfitta e del suo problema. Le ironie della batteria social renziana sulla percentuale del risultato del Pd di Letta, in fondo simile a quello di Renzi, sono totalmente fuori luogo: l’affondamento del partito della sinistra di governo nasce dallo smarrimento della sua identità e delle sue ragioni che toccò il suo culmine negli anni del Giglio magico, e continua oggi. Tuttavia non è affatto vero che quel risultato sia “non catastrofico” come lo ha definito ieri il segretario. Così come è grottesco il giudizio che dopo la costernazione dei primi giorni sta emergendo a sinistra sul risultato dei 5 Stelle, che in fondo “hanno perso punti rispetto al 2018” e “sono tornati alle percentuali dei tempi del Conte 2”, per cui in fondo in fondo avrebbero perso le elezioni anche loro.

Vincere o perdere infatti è questione di obiettivi. Il Movimento 5 Stelle aveva l’obiettivo di dimostrare di essere ancora vivo, e l’ha centrato. Il Pd aveva l’obiettivo di contendere alla destra il governo del paese, e l’ha mancato. In questo senso, la separazione di luglio, al di là delle rotture anche personali, è stata molto più consensuale di quanto Letta e Conte abbiano confessato anche a se stessi. Entrambi hanno fatto, come è normale e legittimo, una valutazione strategica: Conte ha valutato che la sopravvivenza dei 5 Stelle si ottenesse con un ritorno all’identità e con una corsa solitaria centrata sulla sua personale popolarità. Letta ha valutato che la strada giusta per il Pd fosse rivendicare il sostegno a Draghi e l’affidabilità del “primo partito”. Entrambi hanno, come è stato detto, “proporzionalizzato” il Rosatellum, decidendo di non puntare sulla coalizione e rinunciando così a una vittoria possibile in buona parte dei collegi. Una catastrofe, se volete una catastrofe con due colpevoli, dal punto di vista di chi si augurava che la vittoria non andasse alla destra. Ma con questa strategia uno dei due leader ha raggiunto il suo obiettivo, l’altro lo ha mancato in pieno.

E non si dica, come si dice e si è detto anche ieri, che c’è chi ha pensato al paese e chi a se stesso: tutti i partiti, quando arrivano alle elezioni, pensano al paese e a loro stessi. Ogni partito pensa che bene del paese sia la propria sopravvivenza e il proprio successo, altrimenti non sarebbe tale. Fare la morale agli altri perché si sono permessi di avere una strategia migliore della tua è indice di un’arroganza falsamente consolatoria e fin troppo nota.

Ma c’è un’altra ragione per cui il risultato del Pd è tutt’altro che “non catastrofico”: a causa del successo della strategia di Conte e dell’affermazione, per quanto inferiore alle loro attese, del “Non-Terzo” polo calendiano, il Pd per la prima volta si trova a non essere più circondato dai sette nani, ma ad avere competitor realmente consistenti e insidiosi sia a destra che a sinistra. È una situazione pericolosa, che senza una reazione può innescare, come è stato detto, un fenomeno “francese”, e cioè quello che è il prosciugamento (ai limiti dell’azzeramento) dei consensi del Partito socialista. Un processo che, attenzione, può essere molto veloce. Guardare all’estero può servire: anche il Psoe spagnolo si è trovato in una situazione simile, stretto tra Ciudadanos e Podemos. Pedro Sanchez ha scelto l’alleanza con Podemos, e governa la Spagna. In Francia, invece, il presidente è Macron. Lo ha detto ieri Andrea Orlando: ci schiacciamo fino a perdere noi stessi su qualunque formula di governo o leadership esterna perché non abbiamo scelto la nostra identità, il nostro punto di vista sul grande tema sociale (salvo poi non riuscire nemmeno a rivendicare i risultati perché siamo già schiacciati su un’altra cosa, come ha aggiunto Peppe Provenzano). Ma il Pd è in grado di scegliere? Come? Quanto risentimento, quanta chiusura retorica sulle critiche alle primarie, quando la domanda da farsi sarebbe una sola: funzionano?

Infine c’è un tema di credibilità, messo in evidenza ma forse non abbastanza spiegato dal giovane neo deputato napoletano Marco Sarracino. Un tema perfino stucchevole, e però qui mi viene un esempio. Uno dei messaggi forti di ieri è stato: mai più governi tecnici e istituzionali, se cade il governo si va al voto. Benissimo, anche qui non tanto per moralismo quanto perché in questa legislatura “governo tecnico” vorrebbe dire per il Pd fare maggioranza con Fratelli d’Italia, mica coi 5 Stelle, e forse (speriamo) sarebbe un po’ più complicato. Tuttavia come fai a lanciare questo messaggio con un segretario che è stato premier di un governo di larghe intese e che ha fatto tutta la campagna elettorale maledicendo chi aveva interrotto l’esperienza di un governo “senza formula politica”? Le parole hanno ancora un peso? E sorvolo sulle critiche feroci sentite ieri alla legge elettorale in vigore e anche a chi “non ha voluto cambiarla”, tutte fatte da gente che quella legge l’aveva scritta e votata, anche con una discreta forzatura parlamentare: basta dire che Rosato non è più nel Pd per scagliarsi liberamente contro il Rosatellum? E sono tutti argomenti sentiti in campagna elettorale. È dubbio che fossero (e siano) argomenti efficaci.

Detto questo il Pd farà una grande chiamata, e sarà giusto ascoltarla e partecipare. Non c’è altra salvezza per la sinistra, è doveroso provarci. Anche qui però, e sarebbe bello che venisse detto con l’equilibrio, il buonsenso e la soavità con cui lo ha detto ieri il sindaco di Bologna Matteo Lepore: sia una chiamata e un’apertura vera, interessata all’ascolto e al cambiamento, che metta in gioco qualcosa. Perché ieri in certi momenti sentendo quella sfilza di scatti d’orgoglio, critiche agli assenti, condanne a chi se n’è andato (in qualunque direzione e per qualsiasi motivo, evidentemente tutti uguali), no a suggerimenti, sentiti ringraziamenti, difesa di ogni scelta, accuse agli avversari e anche ai possibili alleati, la domanda sorgeva spontanea: ma a chi vi volete aprire?

Così la sinistra ha perso il contatto con la realtà

Pubblicato su The Post Internazionale

Che abbaglio collettivo, l’agenda Draghi. Che errore clamoroso, ora che tutti i partiti che non l’hanno sostenuta o l’hanno mollata – perfino Fratoianni – centrano i loro obiettivi, e il Pd si lecca le ferite. Che distanza siderale dalla realtà della vita della gente aver impostato la campagna elettorale del principale partito della sinistra sull’eredità di un governo “senza formula politica”. Che straniamento quei comizi impostati sull’invettiva contro i “cattivi” che lo avevano fatto cadere, messi tutti sullo stesso piano, gli avversari di sempre e gli alleati fino al giorno prima.

Ma questo scollamento dal mondo reale non è solo colpa del Pd, si dirà. Vero. Il problema infatti è più grave: è l’assoluta e strutturale mancanza di autonomia culturale del Pd da giornali, establishment e poteri economici, complici non innocenti e non disinteressati di un’ubriacatura che li ha portati ai limiti della disonestà intellettuale nel racconto della realtà, e spesso oltre.

È la mancanza di autonomia di una politica senza soldi – fatto che è conseguenza di scelte precise – prima ancora che senza idee, che diventa primum vivere e incapacità di decidere. È questo il cuore del problema di una sinistra che non conosce più il suo mondo e ciò che rappresenta o dovrebbe rappresentare, perché le sue priorità, le sue necessità, sono altre.

Se si fosse presentata l’alleanza giallorossa i voti di Pd e 5 Stelle non si sarebbero sommati, diranno adesso. “La politica non è matematica”, certo. Ma è proprio questo il motivo per cui un’alleanza giallorossa avrebbe preso di più della somma di sinistra e grillini, perché sarebbe stata in partita per la sfida alla destra. Una partita in cui il Pd non è mai entrato. Un vero voto utile, non quello invocato retoricamente e in modo bugiardo nelle ultime disperate settimane.

Ma c’è di più: un’alleanza giallorossa sarebbe stata il vero fatto nuovo della campagna elettorale. E non serve spiegare quanto gli italiani avessero voglia di una proposta nuova, a costo di acconciarsi a credere alla favola della “novità” Meloni, che stravince ma non sfonda. 26 per cento, per dire, è un punto in più di Bersani nel 2013, nonché – stante l’affluenza – molti voti in meno. A proposito, quel 25 per cento alle politiche, considerato una sconfitta, la sinistra come previsto continuerà a sognarselo ancora per un bel po’.

Ma l’alleanza giallorossa andava fatta prima: prima di consegnare il Conte 2 alla damnatio memoriae dell’establishment, prima di schiacciare il Pd su un draghismo caricaturale e privo di prospettiva, salvo farsi soffiare (da un’area centrista vanamente e goffamente corteggiata) perfino la palma del draghismo più draghiano.

Sarebbe servito scegliere. #Scegli, avrebbe dovuto dire il Pd. A se stesso, però.

Dai renziani bugie vigliacche sulla caduta del governo Letta

Intervista a Tpi

di Luca Serafini

Nessuna pugnalata di Renzi. La fine del governo di Enrico Letta, nel 2014, sarebbe da imputare all’allora minoranza “bersaniana” del Pd. Una tesi sostenuta oggi da Ettore Rosato, coordinatore nazionale di Italia Viva, in un’intervista. Abbiamo chiesto di commentarla a Chiara Geloni, giornalista e direttrice del sito Articolo1mdp.it.

“Il governo Letta finì per un voto della direzione di un partito a guida Bersani”, dice Rosato, scaricando da Renzi le responsabilità di quanto accaduto all’epoca. Una ricostruzione che appare abbastanza bizzarra. Come la commenta?
Mi colpisce come, a forza di dire bugie, si rischi di non provocare più nessuna reazione, come accaduto al giornalista che ha ascoltato e non ha ribattuto a una enormità come quella pronunciata da Rosato. Il quale, su Facebook, mi ha poi risposto dicendo che c’è stata un’incomprensione tra lui e chi gli ha posto la domanda, ma che la sostanza non cambia, perché in quella direzione anche le minoranze, Civati escluso, votarono la relazione di Renzi. In realtà la sostanza cambia eccome, perché un conto è avere la guida di un partito, un conto è essere in minoranza. Quello era un partito in cui Speranza ricopriva il ruolo di capogruppo: di conseguenza, se si fosse messo contro il segretario e avesse votato contro la sua relazione, si sarebbe dovuto dimettersi da capogruppo un minuto dopo. Cosa che poi, peraltro, Speranza fece dopo circa un anno da quell’evento. Detto questo, non è che Renzi si sia sottomesso ai voleri della minoranza. In direzione aveva una maggioranza salda e ampia. La decisione di sfiduciare Letta è stata sua. Renzi ha iniziato a mettere in giro questa bugia qualche anno fa in un suo libro, in cui ha detto che fece cadere Letta perché glielo aveva chiesto Speranza. Una menzogna, una vigliaccheria: nella vita bisogna prendersi le responsabilità di quello che si fa. Se posso dare un consiglio amichevole al Pd: per andare avanti rispetto ai fatti degli ultimi anni, bisogna almeno sforzarsi di cercare un po’ di verità nelle vicende che sono avvenute. Questi tentativi di mescolare le carte non aiutano prima di tutto il partito.
Il fatto che questa tesi venga ritirata fuori in un momento del genere è il sintomo di un tentativo, da parte di Italia Viva, di accreditarsi con il Pd di Letta, nell’ottica di un’alleanza Letta-Conte-Renzi? Letta del resto ha detto di essere disposto a dialogare con Renzi.
Letta ha spiegato di voler dialogare con tutti, non solo con Renzi. Tra l’altro, ormai solo alcuni giornalisti continuano a parlare di capolavoro politico quando si riferiscono alla caduta del Governo Conte. In realtà Italia Viva continua a sprofondare nei sondaggi. Oltretutto, facendo cadere Conte, ha visto venir meno anche la sua centralità, la sua rendita di posizione che aveva nella maggioranza precedente. In questo momento il partito di Renzi non ha peso politico. A causa di quello che è avvenuto si trova totalmente isolata nelle vicende del centrosinistra. Chiaramente cerca di tornare in gioco, poiché l’alternativa è probabilmente mettersi a parlare con Salvini, come Renzi sembra tentato di fare, stando ad alcune indiscrezioni giornalistiche. Forse una parte di Italia Viva sta tentando di recuperare un rapporto col centrosinistra e cerca di tirare Letta per la giacca. Ma Letta saprà bene cosa fare.
C’è da credere nella sincerità dell’appoggio di Base riformista a Letta, o possiamo immaginarci che col tempo il nuovo segretario inizierà ad essere logorato dalle correnti come accaduto a Zingaretti?

Non voglio immischiarmi nelle vicende del Pd e di una segreteria appena partita, a cui guardo con amicizia. Di sicuro, come ha scritto in questi giorni Gianni Cuperlo, è curioso che un partito che prima elegge un segretario a larga maggioranza e poi lo vede dimettersi perché le correnti non gli lasciano esercitare il suo ruolo, subito dopo elegga un nuovo segretario quasi all’unanimità. C’è qualcosa che non va in questo. Non sono i segretari, ma è il Pd che ad avere un problema, di identità e di funzionamento. C’è una tentazione eterna di esprimere un’unanimità che poi viene contraddetta un minuto dopo. Non ne faccio nemmeno una questione di lealtà, ma di politica.

Il Pd e i girotondi sulla crisi, analisi di un partito

Intervista a Formiche.net

di Francesco De Palo

“Un grande errore dare del filo a Renzi. Il Pd ha mostrato troppa equidistanza tra Conte e Italia Viva”. Lo dice a Formiche.net Chiara Geloni, già direttrice di Youdem e autrice del libro “Titanic. Come Renzi ha affondato la sinistra” (PaperFIRST, 2019) che scompone la crisi di governo nei suoi aspetti più intestini. Punto di partenza non è nell’oggi e nella possibile rottura di queste ore all’interno della maggioranza, ma nell’ultimo decennio quando il Pd ha mutato il proprio status anche personale, osserva. E sul Conte ter dice che…

Chi decide la linea nel Pd?

Naturalmente non ho dubbi che sia il segretario. Ma la domanda è resa legittima dal fatto che, in effetti, una delle non poche anomalie di queste giornate è che sembrano non esserci più neanche i luoghi, né i momenti in cui la politica dica qualcosa guardando le persone negli occhi. Nessuno ricorda un grande discorso pubblico o una grande intervista di Zingaretti attraverso i media o i canali social del partito a tutti gli uomini e le donne del Pd per raccontare cosa sta succedendo. Mi pare volersi affidare solo al retroscena, alle voci che filtrano o ai vicesegretari. Si arriva così al paradosso di Renzi che manda a Bettini, un autorevolissimo privato cittadino, le sue proposte sul Recovery.

Quanto conta realmente Nicola Zingaretti e quanto Dario Franceschini (e tutti gli altri) mentre al partito manca una fase assembleare, al netto dell’emergenza Covid?

Il momento assembleare manca per i motivi noti, ma al di là del Covid mancano i partiti. Manca una sede, un luogo, un giornale dove la linea del partito venga fuori come frutto non di un assemblearismo sessantottino, ma di una vera discussione tra veri leader che esprimono vere opzioni politiche. Non sono scandalizzata dal fatto che Zingaretti non sia l’uomo forte che decide senza discutere, quanto dal contrario: ovvero che i partiti non sono più luoghi in cui si discute. Il pluralismo è una bella cosa ma oggi nei partiti sembra un po’autoreferenziale perché si svolge tra membri del gruppo dirigente e non tra leadership che esprimono diverse sensibilità condivise. Parlo del Pd perché è stato l’ultimo dei partiti, ma vale anche per tutti gli altri.

Il Pd ha più volte detto chiaramente di non voler uscire dall’attuale schema di governo. Ma come pesa i rilievi al governo di Gentiloni e Sassoli sul Recovery?

Non credo sia giusto considerare qualsiasi opinione contraria come una critica. Il governo aveva elaborato una bozza sul Recovery che come tale era suscettibile di modifiche. Le critiche o i rilievi non vanno considerati come lesa maestà. Ciò che appare inaccettabile del Pd è la stata sua troppa equidistanza tra la posizione di Conte e quella di Italia Viva a tal punto che Renzi ha potuto dire, debolmente smentito, di parlare anche a nome del Pd. Il partito avrebbe dovuto essere più fermo nel difendere non Conte come persona ma come prospettiva di governo e come modo di starci, modus che non può essere rappresentato dal comportamento di IV, a prescindere dai torti e dalle ragioni. Non si sta in una maggioranza in questo modo, dando ultimatum ogni giorno, soprattutto dall’alto di una percentuale che, ovviamente rispetto, ma che in quanto tale non può pretendere di influire su tutta la linea.

È vero che un pezzo del Pd concorda nella tesi renziana?

Temo che il Pd abbia pensato che Renzi potesse rappresentare, con più libertà, un disagio presente tra i dem. È stato un grave errore, perché Renzi non è affidabile né controllabile, né può essere il rappresentante della cultura di governo Pd. Per cui non è interesse del Pd mantenere questa ambiguità, rispetto ad una fase che è già stata giudicata molto severamente dagli elettori.

Si poteva evitare di arrivare a questo punto, in un momento complicatissimo come quello in cui l’Italia si trova?

Sì. Ma sto ascoltando considerazioni sgradevoli anche sul piano umano: sono quasi dieci anni che ciò accade all’interno del Pd dove, prima ancora che una frattura politica, penso siano stati superati quei limiti umani che consentono la sopravvivenza di una comunità. Di questo sono stata testimone. Il Pd rifletta su questo aspetto, anche per valutare cosa accadrà nei prossimi giorni. Un governo può cadere e, molto laicamente, un’esperienza si può anche chiudere: ma c’è modo e modo di gestire una fase del genere e troppo spesso in passato il Pd ha gestito dei passaggi importanti calpestando le persone, con un messaggio sentimentalmente suicida rivolto agli elettori.

Bettini è un libero battitore oppure no?

Apprezzo il suo contributo e la sua intelligenza, ma non so definirlo. Certo non credo spetti a lui convocare assemblee. Il Pd per varie ragioni è rimasto senza padri nobili: oggi Bettini è l’unico che esercita un ruolo che spetterebbe forse ad una generazione che nei momenti difficili si mette a disposizione in maniera collettiva. Ricordo che all’epoca della segreteria Bersani egli si confrontava nei momenti più critici con un gruppo ristretto ma autorevole di dirigenti. Se oggi Zingaretti volesse farlo, avrebbe molte persone intelligenti da ascoltare. Ma osservo che il Pd è l’unico che non ha più ex segretari al suo interno, salvo Franceschini. Mi sembra una primizia assoluta.

Marcucci non è un cavallo di Troia. E non è lui il problema del Pd

Pubblicato su Tpi.it

Eppure non mi convince chi spiega il clamoroso corto circuito che ieri ha visto il Pd chiedere di fatto la crisi di governo in pieno dramma pandemia, ricevere i complimenti di Salvini e prodursi in una precipitosa e un po’ scomposta (ma a quanto pare sorprendentemente indolore) marcia indietro, con l’idea che il capogruppo democratico al senato Andrea Marcucci sia un cavallo di Troia di Renzi, lasciato nel Pd a fare gli interessi di Italia Viva. Sarebbe dunque solo per via dell’ingenuità o della irresolutezza della nuova maggioranza se il problema Marcucci non è ancora stato risolto sollevandolo dall’incarico in modo che non avvenga più che egli parli a nome di tutto il Partito Democratico, visto che è così inaffidabile e fuori linea. Semplice no?

Eppure. Intendiamoci bene: io penso che se Marcucci non si dimette dopo la giornata di ieri, allora io non so quando ci si deve dimettere. Però è proprio l’idea della quinta colonna che non mi convince. E non solo perché a Marcucci il posto di capogruppo non glielo hanno regalato, è in quel ruolo perché è stato eletto ed è espressione di un’area molto forte nei gruppi parlamentari del Pd.

Intanto bisogna chiarire chi è Andrea Marcucci. È piuttosto semplificatorio definirlo “un renziano”. Intendiamoci, lo è: un renziano per giunta toscano e della primissima ora, uno degli uomini chiave della scalata dei rottamatori. Però Marcucci c’era ben prima di Renzi (da quando nel 1992 fu eletto deputato nelle liste del Partito liberale, sì: del PLI), e ci sarà dopo. Non ha bisogno della politica per vivere, è maggiorenne e vaccinato e sono abbastanza sicura che abbia fatto parecchi anni di militare a Cuneo: è uomo di mondo, Marcucci. Non è uno yes man, non ha motivo di obbedire a qualcuno che non può garantirgli niente che non abbia già.
Quindi se Marcucci chiede il rimpasto nell’aula del Senato lo fa perché è convinto, o perché gli conviene: stabilito questo, ce ne frega anche il giusto di analizzare il pensiero politico di Marcucci: il problema è un altro. E temo che sia il Pd. Il Pd che si costerna, si indigna, si impegna quando il suo capogruppo chiede il rimpasto di governo è un partito che, come dice oggi Marcucci a Giovanna Casadio su Repubblica, chiede effettivamente da settimane un “chiarimento politico che rafforzi il governo”.

Poi però getta la spugna, con gran dignità. Diciamocela tutta: le letteresse accorate di Zingaretti ai giornali, le interviste in politichese tattico di Orlando, da ultimo anche i contropiede improvvisi di Franceschini sui provvedimenti anti Covid alla fine che cosa comunicano? Una costante insoddisfazione, nonché impotenza e frustrazione, del Pd verso il governo che sostiene. Anche nell’ultima direzione nazionale, effettivamente apertasi e conclusasi col rituale “pieno sostegno al governo” espresso dal segretario officiante e ieri “irritatissimo” col suo capogruppo, di che cosa si è discusso alla fine?

Sui giornali del giorno dopo abbiamo letto del “cambio di passo”, della “verifica” e del “rafforzamento della squadra”, guardiamoci negli occhi: che significa? In altre parole: che cosa vuole il Pd? Intendiamoci, non c’è niente di male a criticare il governo e a chiedergli un “chiarimento”; magari è anche giusto, per quanto stucchevole, tanto più nel pieno di una tragedia nazionale. Però, se mentre dici queste cose tu sei un partito che sostiene il governo, hai un problema: e allora dicci come pensi di risolverlo. Hai in tasca una soluzione? Pretendila.

Ma parlane dopo che sei sicuro di ottenerla, avendo in tasca l’accordo con Conte, o se preferisci la sua testa. Altrimenti non è che logori Conte: logori te stesso. Il Pd non è un partitino che sfrutta una rendita di posizione. Non può stare al governo con un piede fuori. E deve decidere. Il virus, là fuori, galoppa. Ci sono stati errori e ritardi, ma è sempre più chiaro che nemmeno Stati più forti e governi più esperti del nostro sono al riparo. Di sicuro, nelle settimane che verranno, nessuno avrà voglia di sapere com’è andata poi quella storia del “cambio di passo”.

In molti scommettono sul fallimento di un governo che può essere invece, di nuovo anche se in modo diverso dalla scorsa primavera, l’unica zattera alla quale il paese si aggrapperà. Su quale ipotesi scommette il Partito Democratico? Se pensa che Conte non ce la faccia può anche voltargli le spalle, anche se difficilmente si salverà poi dal naufragio. Diversamente, bisogna che si metta seriamente a remare e soprattutto non perda di vista la rotta. Perché altrimenti, il problema non è Marcucci. Il problema è che il Pd sta giocando col fuoco, e alla fine si brucia.

Gori sbaglia. Non serve un altro segretario, ma un altro Pd

Pubblicato su Tpi.it

La sortita di Giorgio Gori contro la leadership del Pd, prima ancora che a obiezioni di merito, si presta alle critiche circa la sua sgradevolezza. Per inesperienza o goffaggine (se non per intenzione, ma non credo), il sindaco di Bergamo ha avanzato le sue critiche a NIcola Zingaretti dapprima nel corso di un dibattito in streaming ospitato da un altisonante studio legale d’élite (non propriamente un appello al popolo delle primarie), poi le ha riprese in un’intervista a Repubblica che ospitava, nella pagina successiva, un’altra intervista che annunciava la candidatura di Ivan Scalfarotto a nome di Italia viva e degli altri partiti centristi più o meno figli di scissioni dal Pd a presidente della regione Puglia “contro Emiliano”. Quelle critiche hanno lasciato così l’impressione che dentro le mura del Pd qualcuno abbia lasciato un cavallo di legno pieno di soldati pronti, a un segnale convenuto, a uscire nella notte e a incendiare la città di concerto con chi l’assedia da fuori. Bruttino.

La debolezza degli argomenti di Gori però è anche di merito. Non è chiarissimo infatti come si possa rimproverare al Pd di essere fermo più o meno ai valori del suo disastroso risultato del 2018, “il peggiore di sempre” dice giustamente Gori, riproponendo di fatto la linea politica che ha portato il Pd a quella sconfitta: sostanzialmente il blairismo dei tardi anni 90, radicale sui diritti civili e liberale su finanza e impresa, come reinterpretato fuori tempo massimo dal Pd negli anni del renzismo.

Il senso politico, tuttavia, è chiaro. Senza dichiarare ambizioni di leadership, Gori si propone però come front runner tra quanti, non sono pochissimi dentro e nei dintorni del Pd, perseguono, in nome del “riformismo”, altra parola assai in voga diversi anni fa, la fine in tempi medi dell’intesa tra i democratici e il Movimento Cinque stelle.

Questa almeno è una posizione politica chiara, ma ha un grave difetto: col suo 19 per cento, che magari può crescere un po’ anche se come detto sopra non è chiaro il modo, non si capisce come un partito di sinistra possa ambire a giocare un ruolo politico e di governo non dico solo in questa legislatura, ma nell’Italia di oggi, senza un rapporto, anche se non necessariamente di alleanza elettorale, con i grillini. A meno di non cercarlo con Salvini e la Meloni, quel rapporto, magari in nome della “lotta ai populismi”, ma questo nessuno lo dichiara. Su questo però il Pd non riesce a dimostrare di avere le idee chiare, e c’è un motivo. È l’unico punto su cui Gori ha ragione.

Zingaretti, due anni fa, ha vinto limpidamente le primarie del Pd. Ma la sfida di quelle primarie è stata reticente e non sincera. Tre candidati si sono sfidati a colpi di chi gridava più forte il suo “mai mai mai con i Cinque stelle”; e solo qualche mese dopo, grazie a Dio, si è visto come quel “mai” non aveva ragione di esistere di fronte al minimo spiraglio per fare politica. A meno di non essere appassionati di popcorn, invece, come chi contava ancora molto nel Partito democratico nella fase in cui a quel dialogo si chiusero le porte. Qualcuno evidentemente, alla luce dei fatti successivi, interessato a che il Pd andasse incontro a una serena e rapida dipartita: sì, parlo di Matteo Renzi.

Quei “mai con i Cinque stelle”, nel congresso del Pd, erano un modo di non chiudere i conti con la stagione passata. Consentirono una sfida dove i massimi dirigenti si schierarono, esasperando un antico vizio della casa, più per calcoli e per amicizie che per reali differenze politiche: Gentiloni e Orlando con Zingaretti, gli ex renziani chi con Giachetti e chi con Martina. A casaccio, insomma, e soprattutto a prescindere dalla politica.

Ora c’è Zingaretti che ha vinto bene, fa bene il segretario e “ha pacificato il Pd”, come ripete Goffredo Bettini e come dimostrano le tiepide reazioni anche dei non zingarettiani alla sortita di Gori. Tuttavia resta sullo sfondo la non sincerità politica di quel congresso, e la questione non (forse mai) risolta dell’ “identità” del Pd, che infatti viene posta dal sindaco di Bergamo. Nei mesi della pandemia Zingaretti non ha quasi mai trovato le parole e i tempi: non solo per il problema di salute che lo ha colpito, dal quale fortunatamente è uscito presto e bene, ma per la pesantezza di un ruolo che sembra schiacciarlo. Anzi di due ruoli, a proposito del fatto che secondo Gori il segretario “dovrebbe essere” (altro retaggio anni 90) “un amministratore espresso dai territori”: sembrava che Zingaretti non potesse dire quasi niente come segretario del Pd perché era presidente di una regione; e quasi niente, caso pressoché unico tra i suoi colleghi, come presidente di regione perché era segretario del Pd. Ma soprattutto la seconda cosa.

Ma qual è l’identità del Pd negli anni Venti? Ci vorrebbe un congresso appunto. Anche se con le iniziative politico culturali di Gianni Cuperlo il Pd pre Covid aveva dimostrato di aver cominciato a porsela, la domanda. Oggi però il partito appare muto e immobile. Peggio, appare paralizzato da una sorta di appagamento e di presunzione di autosufficienza che non sono in alcun modo giustificati dai numeri dei sondaggi, per quanto confortanti rispetto alle micro scissioni subite. Nelle dimensioni della vittoria di Zingaretti alle primarie c’era un’aspettativa di rigenerazione del campo del centrosinistra che andava oltre gli stessi confini del Pd. Ma per ora quelle attese non sono state soddisfatte. Dalle Sardine alle donne di Perugia, dalle manifestazioni antirazziste all’inquietudine per il futuro del lavoro, al bisogno di protezione e magari di Stato (ri)scoperto a causa della pandemia, nel paese accadono cose dalle quali il Pd è fuori. Emergono domande che il Pd non raccoglie, e che non sono nemmeno a lui indirizzate. Il Pd continua ad apparire un partito pago, che vagheggia di vocazioni maggioritarie e candidati premier, che fa filtrare nomi per tutto, dal Quirinale al sindaco di Roma, senza accorgersi di non avere il fisico per ambire, in teoria, a niente. L’atteggiamento verso i Cinque stelle fatica a nascondere un senso di superiorità che i fatti non sempre giustificano. Sui territori le correnti impazzano. Offrire a personalità non di primissimo piano ma senza curriculum di partito ruoli come la presidenza dell’assemblea nazionale non sostituisce la necessità di parlare a quell’enorme fetta di “sinistra” nel paese a cui oggi il Pd non ha niente di significativo da dire.

Servirebbe riorganizzare quel campo, e possibilmente assumerne la guida. Ma per questo ci vorrebbe molto più coraggio e molta più generosità di così. Qualcosa che appunto si vedesse da fuori, desse il segno che la sinistra si rimette in gioco, e chi ci vuole stare trova spazio, e chi non è d’accordo fa serenamente altro, senza per forza “pacificarsi” con tutti. Non un altro segretario, ma un altro Pd. O un’altra cosa.

 

Renzi è già uscito dal Pd. Ammesso che ci sia mai entrato, cosa di cui dubito

Lo dico ai tanti amici angosciati dalle incredibili interviste dei renziani, annuncianti una scissione priva di alcuna plausibile motivazione politica, anzi una “separazione consensuale” in cui addirittura Renzi “lascerebbe” qualcuno libero di rimanere nel partito perché, si sa, l’uva è acerba.

Lo dico a Gianni (Cuperlo), a Peppe (Provenzano), lo dico soprattutto al mio più vecchio amico Dario (Franceschini) che lo sa meglio di tutti, come lo so io: non è vero che le scissioni sono sempre foriere di sventure e di sconfitte.

Io nel 1994 ne ho fatta una fichissima di scissioni. Quella scissione portò al governo un nuovo centrosinistra, e il suo leader morale oggi è al Quirinale a rappresentare e a difendere le nostre istituzioni, la democrazia, noi tutti, come nessuno saprebbe fare al suo posto. Ne ho fatta un’altra poi, nel 2017: non è andata altrettanto bene nelle urne, ma il passare del tempo mi sta rassicurando che tutti i torti non li avevo. E qualche conferma – e qualche soddisfazione – me la state dando anche voi amici, con le vostre interviste e le vostre parole di questi giorni: grazie.

Vi dico, amici: lasciate che facciano un po’ quello che vogliono. Se c’è un moscone che sbatte fastidiosamente contro i vetri, aprite la finestra. Non cambierà niente. Tanto lui, Renzi, è già fuori dal Partito democratico, ammesso che ci sia mai entrato.

Lo so benissimo che è stato eletto segretario legittimamente, lo so che non è un corpo estraneo, che è uno di noi dall’inizio, addirittura dai tempi preistorici del Partito popolare (no Dario?). Sto dicendo un’altra cosa. Quello a cui mi riferisco è la sua totale estraneità all’idea stessa di un partito grande, plurale, contendibile, democratico.

Estraneità che abbiamo visto benissimo nel momento del potere – quando Renzi ha concepito solo le prove di forza e la brutalità (ne siete stati vittime anche voi) come metodo di governo del partito. E che vediamo da quando fa, si fa per dire, “la minoranza” – ora che Renzi non riesce a non sentirsi “controparte” rispetto a chi guida il partito dopo di lui, e per questo deve farne un altro: per “stare al tavolo”.

Perché Renzi non può essere rappresentato da nessun altro che da se stesso, in una triste politica senza politica, capace di passare dal #senzadime al #vengoanchio, dal non voglio poltrone a volevo i toscani, nel tripudio identico e costante dei fans, a seconda delle convenienze tattiche. E chi non è d’accordo è un nemico, o ha problemi psichiatrici, è ossessionato, rosica.

In questo senso il Pd di Renzi non è stato mai il Pd, e Renzi non appartiene al Pd, non ha niente a che vedere col Pd, e non ha niente a che vedere con voi. Né con me. Aprite la finestra amici, che abbiamo un sacco da fare, un nuovo centrosinistra da costruire.

Ma andate a cagare voi e le vostre bugie. (La favola di Adamo ed Eva)

Chiedo venia trovo un po’ esagerato
pagare tre volte un litro di benzina
sentirsi dire con sorrisi di rame
che sono costretti dal mercato dei cambi
ma andate a cagare voi e le vostre bugie

Basta cazzate, basta. Non ricostruiremo un progetto di sinistra con le frasi fatte e i luoghi comuni. Non usciremo dalle rovine con le ipocrisie autoassolutorie. Basta. Basta. Facciamo i nomi, io per prima.

Adesso mi venite a dire che bisogna andare “oltre il Pd” (Romano Prodi, tra gli altri). Dopo che per anni siete stati al caldo in un Pd sempre più piccolo, chiuso, monocorde a spiegare che guai ad andarsene perché “siamo una comunità”, e a battezzare subito “padre nobile” chi ripeteva questa banalità ipocrita e falsa – falsa, dopo i 101, dopo Marino, dopo Letta, dopo le espulsioni dalla commissione di ex segretari e ex presidenti, dopo le dimissioni di un capogruppo senza dibattito e discussione, senza che nessuno fosse capace di dire che se il Pd avesse avuto “padri nobili”, sarebbero state impedite tutte queste cose senza bisogno di fare scissioni. Siamo una comunità, come no.

Santi numi ma che pena mi fate
strozzati inghiottiti come olive ascolane

Adesso mi venite a spiegare (Michele Serra) che l’atto di morte della sinistra sono state le elezioni in Emilia Romagna, quando votò il 37 per cento – in Emilia Romagna! -, ma grazie. Grazie da parte di tutti i gufi rosiconi, insultati perché guastavano la festa, “l’astensionismo è un fatto secondario”, certo. Adesso ci spiegate che invece del diluvio grillino è arrivata la valanga leghista (Sergio Rizzo, inviato in Toscana): ma quanto era bello prendere in giro chi diceva “non vedete la mucca nel corridoio”, non è vero?

Pensarsi arrivati dopo un lungo week end

Basta dire che è stata colpa di tutti allo stesso modo. Di chi diceva “così perdiamo” e di chi faceva così lo stesso, perché certo sono odiosi quelli che dicono lo avevo detto. E però lo avevano detto.

Basta dire che i problemi c’erano già prima, e in fondo Renzi ha addirittura frenato la caduta (Enrico Mentana). E certo che c’erano i problemi. E certo che forse la sinistra avrebbe perso lo stesso, di fronte all’onda di destra, anche senza gli errori di chi ha sbagliato. Ma un conto è perdere, un altro smobilitare, “perdere se stessi”, scrive Ezio Mauro. E però qualcuno lo aveva detto. Volete dirmi che anche con Bersani segretario il Pd avrebbe perso Imola? Ma nemmeno se lo vedessi succedere ci crederei. Ma basta.

Credo di notare una leggera flessione del senso sociale
la versione scostante dell’essere umano che non aspettavo
cadere su un uomo così divertente ed ingenuo da credere ancora
alla favola di Adamo ed Eva
favola di Adamo ed Eva

Basta dire che “tutti hanno fallito, e chi ha fallito deve lasciare il campo”. Fatemi i nomi. Chi ha fallito? Quando? Chi deve lasciare il campo? Quale campo? Se no sono solo frasi fatte, come quelle di cui vi siete cibati per anni a colazione, pranzo e cena, tipo “non voglio un partito pesante, voglio un partito pensante”: cazzate. Chi deve lasciare il campo? Perché? E soprattutto: siamo sicuri che non lo abbia già lasciato, e che ci siano da tempo praterie aperte davanti a gente che semplicemente non è capace di correre? Hanno fallito tutti allo stesso modo? Siamo sicuri?

E davvero “Basta con il renzismo e con ciò che l’ha prodotto, da D’Alema a Bersani” (Massimo Cacciari)? Davvero aver capito per primo la sfida di Renzi dentro il Pd, averla accettata contro il parere di tutti e averla vinta è uguale a “averlo prodotto”? Davvero Cacciari e quelli come lui sono innocenti e possono continuare a sputare sui “gruppi dirigenti del passato” e stabilire chi saranno i buoni del futuro?

E infine basta dire che “la gente vuole facce nuove”, basta. Ha vinto Scajola, vi volete rendere conto? Cosa vuol dire essere giovani? Vuol dire crederci, avere coraggio, entusiasmo, curiosità, generosità, capacità di mettersi in discussione, voglia di rischiare. Vuol dire voler cambiare il mondo, essere giovani. E invece non ho mai visto una classe dirigente più boriosa, supponente e poltronara di quella dei miei coetanei rottamatori – e di chi ne ha cantato l’ascesa. La gente vuole teste giovani, e voi siete vecchi dentro.

Siamo uomini troppo distratti
da cose che riguardano vite e fantasmi futuri
ma il futuro è toccare mangiare tossire ammalarsi d’amore

I 101 cinque anni dopo. La vera domanda non è “chi”, ma “perché”

(Scritto per Strisciarossa.it)

Il quinto anniversario del tradimento dei 101 ha riservato qualche amara soddisfazione a noi cultori della materia. Benedetta dall’autorevolezza della firma del direttore dell’Espresso Marco Damilano e dalla collocazione in prima pagina su Repubblica, sembra definitivamente affermarsi una lettura dei fatti che non solo arriva a suggerire se non i singoli nomi almeno l’identikit dei responsabili, attraverso un ragionamento logico che dalle conseguenze politiche del gesto risale all’indietro ai suoi autori/beneficiari nel mondo renziano e in quello dalemiano (la saldatura tra chi non voleva il Prof al Colle e chi voleva “abbattere il cavallo azzoppato” Bersani), ma che ha anche il pregio di individuare con precisione in quella vicenda “l’otto settembre del Pd”: non fu solo Prodi a essere “bruciato” quel giorno, ma il futuro del partito. Due punti che erano il cuore del nostro Giorni bugiardi, il libro di Stefano Di Traglia e mio uscito alla fine del 2013, e che allora risultavano un po’ meno mainstream di adesso. Continua a leggere

A Mieli e Tabacci, sul “rancore personale” che uccide l’analisi politica

Caro Paolo Mieli, come reagiresti se io facessi un editoriale in cui affermo che i tuoi articoli sulla sinistra risentono dei tuoi problemi irrisolti con tuo padre, che fu se non sbaglio giornalista dell’Unità? Caro Bruno Tabacci, le piacerebbe se un dirigente di Articolo 1 facesse un’intervista per sostenere che le sue scelte politiche sono frutto di un vecchio trauma infantile?

Non volevo scriverlo questo post. Ma è tutto il giorno che lo rimugino e ci sto male. Così voglio dire subito questa cosa, prima di abituarmici e smettere di pensarla. Se, tra professionisti del giornalismo e tra professionisti della politica, assumiamo come elemento di analisi la categoria del “rancore personale” non c’è più nessuna politica e nessun giornalismo possibile. Non siamo troll, e non possiamo parlarci come troll. Spendere l’argomento del “rancore personale” come un elemento “normale” di analisi dei fatti politici è la morte dei nostri due mestieri. È qualcosa che avrebbe fatto inorridire tutti i nostri maestri, nel senso professionale del termine, ma anche nel senso ideale. Perché è un atto di smisurata arroganza e illiberalità; perché uccide l’interlocutore, delegittimandolo come tale. Chiude ogni dialogo. Rende impossibile il dibattito e la risposta. Così muore il giornalismo, così muore la politica. Continua a leggere