Cara Lucia Annunziata, su Berlusconi non ci siamo sbagliate

(questo post è uscito anche su Huffington post Italia)

Ho letto un bel pezzo di Lucia Annunziata e tanti altri commenti delusi o autocritici di persone che in questi anni si sono opposte a Berlusconi e mi pare che stavolta però non si colga il punto. Non capisco perché si deve dire che siamo sconfitti perché la sentenza ha stabilito che il Cavaliere è un politico integerrimo. Non è così, non era questo il punto: e non solo perché Berlusconi ha altre condanne e altri processi, ma perché nessuna sentenza è sull’integrità di una persona, e nessuna sentenza è un giudizio politico.

Il mio giudizio su Silvio Berlusconi non dipende da una sentenza, come non dipendeva dalle sentenze precedenti. E non è neanche un giudizio morale, è un giudizio negativo su un uomo politico, sulla sua idea dell’Italia, sulle sue scelte politiche e su come ha interpretato il suo ruolo pubblico.

E nemmeno il mio giudizio sull’opposizione a Berlusconi dipende da una sentenza: abbiamo fatto bene a opporci, abbiamo fatto bene a non votarlo. Lo abbiamo anche battuto, per via politica e non per via giudiziaria: nel ’96 e nel 2006 e anche nel 2013 (sì, lo abbiamo smacchiato), impedendogli la strada di altre leggi ad personam e una prova di forza sul Quirinale, e costringendolo ad affrontare finalmente i processi senza la possibilità di farsi assolvere dal Parlamento.

Sul caso specifico penso che la vicenda di Ruby e delle Olgettine sia uno squallore che avrebbe determinato la fine della carriera di un politico in qualunque paese: ma non perché lo decide la magistratura, perché lo decide l’opinione pubblica. E in effetti un po’ questo è successo, un anno fa. Vediamo di non essere noi adesso a convincere gli italiani che Berlusconi era “un politico integerrimo” e quindi bisogna tornare a votarlo.

È tutto un complesso di cose

È che ho letto che oggi Gino Bartali compie cento anni. Diciotto luglio millenovecentoquattordici.
È perché come si fa a restare indifferenti alla poesia del clclismo, anche se non ne sai tanto, ma Gianni Mura quando puoi lo leggi sempre no? È per quella storia dell’attentato a Togliatti, quel profumo di Italia antica, di racconti dei nonni, di democristiani e comunisti che si davano una mano, sempre, nell’emergenza. È perché De Gasperi dopo gli chiese che cosa vorrebbe come regalo, come ricompensa, come riconoscimento dallo Stato. E lui rispose: “Non pagare le tasse per un anno”, e De Gasperi: “Eh no, questo non si può”.
Per un anno.
Questo non si può.
È perché ho letto un bellissimo pezzo di Antonio D’Orrico sul Corriere.
È perché è vero: “Bartali“, di Paolo Conte, è una delle più belle canzoni della storia della musica.

Una cosa sul garantismo, anzi su Errani

C’è qualcosa che non mi torna in tutti questi articoli sulla svolta garantista del Pd. Ci ho rimuginato un bel po’ sopra e penso fondamentalmente sia questa: con il caso Errani il garantismo non c’entra niente, almeno per quanto mi riguarda. E credo non c’entri niente, il garantismo, neanche con quello che succede in queste ore nel Pd. So che questa è la parola che ha usato il presidente del consiglio nei suoi tweet, “questo si chiama garantismo” ha detto, e mi dispiace non essere mai d’accordo con lui, ma non sono d’accordo neanche stavolta. Il garantismo è un principio generale, e per me sacrosanto. Deve valere per tutti, colpevoli o innocenti, simpatici o antipatici, onesti o disonesti. Tutti devono potersi difendere e hanno diritto a un trattamento equo e umano, a non essere processati in piazza e a essere ritenuti e trattati da innocenti fino al giudizio definitivo.
Mi pare però che si confonda il rispetto della magistratura e delle sentenze da un lato, e il garantismo dall’altro, con qualcosa che non c’entra. Provo a spiegarla così: io resterò convinta che Vasco Errani sia un uomo onesto anche se venisse condannato in via definitiva (cosa che sono certa non avverrà). Questo non è garantismo e non è neanche contestare la magistratura o accusarla di complotti: è un giudizio obiettivo sul reato che viene contestato a Vasco Errani ed è inoltre il mio giudizio personale sulla persona di Vasco Errani, di cui mi assumo tutta la responsabilità e che non è sottoposto a un giudice, a nessun giudice.
Come diceva oggi un mio amico, per me valgono le lezioni di Socrate e di Gesù Cristo e quindi rivendico il diritto di credere all’innocenza anche di chi è giudicato colpevole. Anche dopo tre gradi di giudizio. Figuriamoci dopo un 1 a 1. E ho la sensazione di non essere la sola.

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Chi se ne frega dell’elettività dei senatori

Ha ragione Antonio Polito sul Corriere di oggi. Colpisce come in pochi colgano il fatto che si stiano riformando il bicameralismo e la legge elettorale senza alcuna riflessione né dibattito pubblico su quale sistema istituzionale e quale sistema politico vogliamo per i prossimi decenni in Italia. Chi se ne frega se i senatori saranno eletti o no, o se la soglia di sbarramento sarà del 4,6 periodico. Spiegatemi a cosa servirà il senato, non quanto risparmieremo in stipendi di senatori. E ditemi se saremo una democrazia come quelle europee o la solita simpatica eccezione macchiettistica.

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La morte della politica

Visto che qui non si capisce più chi ci è e chi ci fa, chi non capisce più i fondamentali e chi fa finta: lo so anch’io, grazie, che in un partito la maggioranza decide. Il fatto è che di solito in un partito la maggioranza non dice “alla faccia vostra rosiconi che volevate sabotare, io i voti li ho trovati da un’altra parte e dei vostri me ne frego”. Altrimenti, diciamo, siamo andati un tantino oltre l’idea stessa di essere un partito. E adesso ditemi: volete il disegnino?

Immunità, il nodo al pettine

“San Giovanni un vòle inganni” si dice a Firenze, e al premier schietto e fiorentino piace ricordarcelo. Ecco, sull’immunità dei senatori del nuovo senato si può dire che il patrono della città di Matteo Renzi ci abbia messo lo zampino, ai danni del suo protetto dalla parlantina sciolta. Leggo che qualcuno si scandalizza perché chi farà parte del nuovo senato avrà l’immunità parlamentare, sebbene nella forma già corretta e ridotta (alla necessità di richiesta di arresto e autorizzazione all’uso delle intercettazioni) che riguarda anche i deputati. Ecco perché scandalizzarsi è sbagliato, e da dove nasce l’equivoco.
In principio era un premier, anzi un candidato segretario, che vinse le primarie e prese l’abbrivio della sua corsa verso palazzo Chigi con uno slogan inedito e rivoluzionario: “Aboliremo il senato”. Fichissimo: suonava alla grande, fuoco e fiamme, cose mai viste.
Poi, insediatosi a Palazzo, il giovane e ribelle premier ci spiegò che certo quella cosa che si chiama con il nome italiano di senato, il nome che aveva nell’antica Roma, pressoché in tutti i paesi del mondo (almeno in quelli che ce l’hanno) non è che sarebbe stata proprio abolita. Ma che in effetti sarebbe stato come se, perché i senatori del senato nuovo sarebbero stati senatori di nuovo tipo, a costo zero: sindaci, amministratori, leader locali, bella gente ben vista al Colle: tutti con un altro mestiere, tutti già con lo stipendio. Mica come quelli di adesso, senatori costosi e inutili.
Invece al dunque salta fuori il problemino: il diavolo si sa si nasconde nei dettagli, e c’è il dettaglio che se questi nuovi senatori faranno parte di una camera, eleggeranno il capo dello stato, faranno leggi, esattamente come i membri dell’altra camera sebbene su altri temi, non è che potranno avere prerogative diverse rispetto a quelli dell’altra camera, perché sarebbe incostituzionale, illogico e illegittimo.
Ecco perché la risposta alla domanda che mi è stata fatta poco fa: “Ma com’è possibile che alcuni sindaci abbiano l’immunità e altri no?” non può che essere, semplice semplice: “Perché alcuni sindaci saranno senatori e altri no”. E mica te l’ho chiesto io, caro governo, di fare senatori i sindaci, per me potevi fare senatori anche i cavalli. Il punto è che, sindaci o cavalli, questo saranno: senatori.

Perché vanno viste le carte di Grillo

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Premesso che Sebastiano Messina, su Repubblica di oggi, ha mostrato in maniera sintetica e geniale la strumentalità delle aperture grilline sulla legge elettorale,

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penso che il Pd farebbe un errore gravissimo a snobbare la richiesta di un incontro con il Movimento 5 stelle. Non condivido né la liquidazione preventiva con cui aveva risposto sere fa il presidente del consiglio – ok all’incontro ma facciamolo in streaming perché noi non vogliamo fare “giochini e patti segreti”, né i paletti più ragionati posti oggi sul Messaggero dal presidente del partito Matteo Orfini, che pur definendosi “l’ultimo dei proporzionalisti” premette a qualsiasi confronto il concetto che “l’Italicum non si discute”. Penso che questo atteggiamento sia sbagliato e pericoloso, per le riforme e per il Pd.

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Il nome della Festa, il lapsus di Matteo

Tanto per dire: ho scritto fiumi d’inchiostro sulla questione del nome delle feste del nostro partito, anche perché lavoravo in un giornale che sentiva molto il tema che non si chiamassero feste dell’Unità, dato che era il giornale della Margherita. Una volta anche Gianni Cuperlo scese a tenzone con me, replicando a un mio articolo: io giovane giornalista, lui sempre il solito signore: devo ritrovare traccia di quello scambio, perché vi giuro non ricordo né gli argomenti miei né i suoi, e la cosa mi fa sorridere di tenerezza a ripensarci proprio oggi. Nel tempo infatti ho relativizzato parecchio la questione. Sono stata a mio agio e mi sono sentita a casa mia in feste che si chiamavano “Democratiche”, “dell’Unità” o anche in altri modi. Ricordo quindi solo per inciso che quelli che in questi anni mi hanno invece continuato a controbattere che no, la questione era importante e che la “discontinuità” col passato andava assolutamente marcata, sono tutti, TUTTI, sostenitori di Renzi fin dalla prima ora. Sarei curiosa di chiedergli cosa pensano adesso, ma anche no (è già successo sul tema ben più importante dell’adesione al Pse che coloro che si sarebbero dati fuoco fino a due mesi prima abbiano approvato senza fiatare, figuriamoci su questo).

Però una cosa sola, rapida, poi ci torno. Dire “le nostre feste tornino a chiamarsi feste dell’Unità” è una vera mistificazione, una bugia e come tale una mancanza di rispetto. Quel “prima”, in cui le nostre feste si chiamavano dell’Unità, non esiste. Le feste del Pd si chiamavano Democratica, quella nazionale, e Democratiche in genere quelle locali con alcune eccezioni, illustre quella di Roma. Se poi parliamo delle feste a cui andavamo Matteo e io con i nostri babbi da bambini, quelle si chiamavano feste dell’Amicizia. Ne ricordo una nazionale a Viareggio, magari c’era anche Matteo piccolino. Comunque io sono cresciuta coi testaroli fatti a mano delle feste dell’Amicizia in Lunigiana, e coi tordelli della mitica festa dell’Amicizia di Bedizzano. Torniamo a chiamare le cose col loro nome, altro che “tornino a chiamarsi”.

Non mi preoccupa tanto che Matteo Renzi abbia dei lapsus o dica qualche bugia, figuriamoci. Mi preoccupa quello che il lapsus o la bugia rivelano: l’idea cioè di un Partito democratico dove la sinistra ha la delega alla paccottiglia politica e alla cura dei simboli, ed è pure contenta. Intanto che altri si occupano della linea politica, della gestione del potere, di prendere voti, di cambiare l’Italia. In quel tipo di sinistra del Pd, ve lo dico, io non mi riconosco, e nemmeno eventualmente in quel tipo di Pd. Nemmeno se mi regalano la maglietta di Togliatti. A proposito, complimenti e in bocca al lupo al mio amico Matteo (Orfini).

Esercizi di spirito critico (anche per principianti)

1) Chiedersi SEMPRE “ma se l’avesse fatto Berlusconi”.
2) Chiedersi ALMENO OGNI TANTO “ma se l’avesse fatto Bersani”.

Stavo giusto pensando, per mantenermi in esercizio, a cosa sarebbe successo se nella scorsa legislatura il Pd avesse gentilmente sollevato dall’incarico qualche senatore raccoglifirme alla Ichino o qualche scioperatore della fame alla Giachetti, uno che sta in minoranza anche quando è in maggioranza, o qualsiasi altro renziano, veltroniano, fioroniano, mariniano, civatiano o altro a piacere. Proprio in quel momento ho visto questo tweet di una persona onesta, onesta di pensiero intendo, come Andrea Sarubbi.

Ps: commento critico sull’esercizio di spirito critico.
Bisognerà comunque chiedersi come si sta in una commissione parlamentare da esponente di un gruppo e non da singolo. Voglio dire che io non sono sicura di riconoscermi in pieno nell’atteggiamento di Corradino Mineo, dato che penso che un partito debba essere un soggetto politico e non uno spazio per individualismi dei singoli, e che un senatore in una commissione non rappresenti solo se stesso e le proprie opinioni. Tuttavia vorrei ricordare che prima di cacciare la gente forse varrebbe la pena provare a convincerla, non sia mai magari anche a convincersi reciprocamente. Anche perché, ricordo, Ichino e compagnia si dissociavano da testi approvati a maggioranza negli organismi dirigenti del loro partito, Mineo si oppone a un testo che nemmeno il ministro competente, oggi come oggi, sa dire bene qual è.

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Se ci vedesse Berlinguer

Chiacchieravo poco fa con amici provenienti dalla filiera Pci, per via di percorsi personali o ascendenze familiari, di questa ondata di commozione e di devozione quasi, di questa bellissima festa che è in corso sui social in memoria di Enrico Berlinguer; e m’è tornato in mente un episodio che mi raccontò anni fa un noto ministro con la barba di cui non farò il nome (non è Delrio). Negli anni Ottanta, dunque, un gruppo di giovani della sinistra Dc fondarono una rivista settimanale. In onore di Zaccagnini, loro riferimento politico, decisero di chiamarla “Settantasei” (l’anno in cui Zac era diventato segretario). Quando Zaccagnini lo seppe, si incazzò moltissimo e disse che lui detestava questi “eccessi di personalizzazione”.
Non so bene che associazione di idee ho fatto. Ma è che quest’anno ci sono tanti anniversari, e io ho molto tempo libero. L’altro giorno sono stata alla presentazione della bellissima biografia di Piersanti Mattarella scritta dal mio amico Giovanni Grasso, ieri ero alla presentazione del francobollo commemorativo voluto dal governo su Berlinguer, e Beppe Vacca ha detto che a quanto pare Berlinguer è un’icona social: nel senso la sua foto è l’immagine politica più postata sui social network (subito dopo, Gramsci e Pertini). “E questo qualcosa vorrà dire”, ha detto. Già, ma cosa?
In quel momento ho avuto una sensazione, una sensazione che mi viene spesso ultimamente, non so se l’avete presente. È come se sentissi che siamo lì, commossi, a celebrare una politica che rimpiangiamo tanto. E che se oggi qualcuno la facesse, sarebbe sommerso dai pernacchioni.