Da che pulpito, Lanzillotta

Mi dicono che la senatrice Linda Lanzillotta ieri avrebbe dichiarato che “anche con Bersani segretario nel Pd c’era qualuno che si sentiva a disagio”.

Solo per la cronaca, ricordo che l’elezione di Pierluigi Bersani a segretario del Pd venne ratificata dall’Assemblea nazionale il 7 novembre 2009. La senatrice Lanzillotta, oggi ancora tale grazie alla rielezione nella lista di Scelta civica e presumibilmente a suo agio come vicepresidente del senato, uscì dal Partito democratico per aderire all’Api di Francesco Rutelli l’11 novembre del 2009, quindi dopo aver sopportato stoicamente ben quattro giorni di disagio.

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Antiberlusconiani e mazziati

Da una parte c’è il Fatto quotidiano con i suoi orgogliosi pantheon di antiberlusconiani a prova di martirio, inseguito con qualche comprensibile imbarazzo da Repubblica che si limita ad alzare educatamente il sopracciglio. Dall’altra ci sono gli entusiasmi foglianti per la fine delle sterili contrapposizioni della seconda repubblica, rilanciati con trattenuto entusiasmo dal Corriere della Sera. In questo dibattito originato dalla strabiliante (ma non troppo) affermazione del presidente del consiglio e segretario del Pd che parlando al Meeting di Cl (ma poi anche in un teatro affollato di sostenitori del nuovo corso) ha messo sullo stesso piano berlusconismo e antiberlusconismo accusandoli di avere “bloccato l’Italia” per vent’anni, c’è qualcosa che – chissà perché (si scherza) – nessuno dice. Infatti è difficile da dire, e non tutti hanno titolo.

A sinistra in questi anni non c’è stato soltanto il pantheon del Fatto quotidiano nudo a combattere contro l’orrido inciucio. C’è stata anche una sinistra, spesso maggioritaria, che si è rifiutata di definirsi solamente “contro” Berlusconi. E che per questo ha provato, proprio per non contribuire a bloccare il paese in uno scontro ideologico e sterile, ad agire – quando poteva, cioè quando ha avuto la forza per farlo – come se avesse un fortissimo avversario “normale” (ah, questa parola!). Questa sinistra (riformista? socialdemocratica? normale?) pur con errori e contraddizioni, ha cercato di guardare all’interesse del paese più che a una rendita di posizione elettoralistica ed emotiva. Ha cercato di unire ciò che Berlusconi divideva, preservando lo spirito costituzionale mentre la destra berlusconiana lavorava a demolirlo. Ha cercato di cambiare le cose in maniera concreta e non ideologica, pur non avendone sempre la forza. Ha accettato di correre il rischio di dialogare con la destra così com’era, quando lo imponevano le necessità e le regole costituzionali. Sto parlando di fatti storici e concreti, verificabili, dalla Bicamerale ai governi Monti e Letta.

Questa sinistra ha spesso pagato un prezzo, anche a causa del mood prevalente nella stampa e dell’intellighenzia di sinistra, mai abbastanza sazia di antiberlusconismo militante, che ha alimentato e coltivato uno spirito antagonista e moralista nel suo stesso campo. Con queso mood ha scelto non di combattere, equiparandolo a un avversario anche se spesso lo è stato, ma di confrontarsi con spirito di umiltà e di apertura, di combattere insieme. Spesso senza incontrare altrettanta disponibilità e apertura. E per inciso, di questa retorica antiberlusconiana militante si è nutrita la campagna di logoramento di Matteo Renzi contro il governo Letta, fino a poco più di un anno e mezzo fa quando Berlusconi venne ricevuto al Nazareno.

Oggi, è proprio contro quella sinistra che viene brandita l’accusa di aver “bloccato” il paese. E nessuno sottolinea questa assurdità (con l’eccezione parziale di Piero Ignazi su Repubblica di ieri). Da quali pulpiti, con quali titoli e con quale onestà intellettuale si stia svolgendo questo dibattito (sostanziale e tutt’altro che agostano) sull’identità e le prospettive del Partito democratico, ognuno lo può giudicare.

Caterina. Il Cinquecento è il romanzo dell’estate

Accorgersi di aver letto il racconto della notte di San Bartolomeo proprio la notte di San Bartolomeo è fantastico. Entrare nel racconto della vita di Caterina de’ Medici poche ore dopo aver passeggiato nello studio verde e nei giardini di Chenonceau e aver fotografato il letto della regina è impagabile. Insomma, ci sono libri che ti raggiungono proprio nel momento perfetto per essere letti, e Caterina la Magnifica di Lia Celi e Andrea Santangelo (Utet, 14 euro) l’ha fatto, col fiuto politico di un sovrano rinascimentale.

Ora però non vi consiglio di aspettare il prossimo 23 agosto sera, o di prenotare un appartamento per una settimana a Tours, prima di leggere anche voi Caterina. Ennò, fatelo subito. Vorrete mica perdervi la storia della bambina erede di bottegai fiorentini diventata regina di Francia. La trama, ammettiamolo, è irresistibile. E poi a dirla tutta questo libro non è la biografia della regina Caterina. La biografia è quello che gli autori volevano scrivere, prima di essere travolti. Come da che? Dalla passione e dal divertimento, e dalla curiosità per l’epoca più interessante, strabiliante, straordinaria della storia. Caterina è un pretesto e una scusa, il protagonista è il Rinascimento. È la storia, che incanta e fa ridere (fa ridere davvero eh). Lo so che state pensando a tutta quella successione di guerre e di paci, a quel rompicapo di dinastie che vi ha fatto temere l’esame di storia moderna più della terza guerra mondiale. Scordatevelo. Il Cinquecento è il romanzo dell’estate, e Caterina, la bimba fiorentina concepita come in provetta affinché i Medici incrociassero la storia e i francesi l’Italia, è una protagonista perfetta, cioè imperfetta. Non è bella come una principessa, resta orfana appena nata (del babbo fiorentino, della mamma francese e soprattutto dello zio papa), rischia la pelle un paio di volte prima della maggiore età. E tuttavia… V’è venuta voglia eh? Infatti. Mettetevi comodi. Un macaron prima di iniziare?

Qualunquista a chi

Di politici per il mio lavoro ne ho conosciuti parecchi, e molti di loro sono brave persone. Anzi, nella mia esperienza, mi risulta che la maggior parte sono brave persone. Non è semplicissimo sostenere questa tesi in pubblico o su un social network, ma quando mi è capitato l’ho sempre fatto e lo ribadisco anche qui. So anch’io come ci si sente ad essere oggetto di critiche indiscriminate verso un’intera categoria – i politici appunto, perché anch’io come direttore di Youdem sono stata nel gruppo dirigente di un partito, i giornalisti, le bionde – e so che chi si sente messo nel mucchio ingiustamente fa bene a reagire. 

Però vorrei dire una cosa sulle reazioni alle parole di monsignor Galantino in ricordo di De Gasperi (che potete leggere qui, e se fossi in voi lo farei), perché non è giusto mettere nel mucchio nemmeno le critiche. Il segretario della Cei non ha parlato genericamente di “ladri e corrotti”. Non ha fatto il Marenco, “in galeraaaa”, e non ha fatto il Beppe Grillo, “vaffanculoooo”. Non ha nemmeno criticato, frusto refrain sentito mille volte anche da pulpiti molto ascoltati, “i partiti”. Se leggo bene, Galantino ha fatto riferimento a due difetti precisi della classe politica attuale: da un lato ha parlato di mediocrità e opportunismo (“un piccolo harem di cooptati e furbi”), dall’altro di comportamenti non ispirati a idealità e valori (“un puzzle di ambizioni personali”). Inoltre ha ammonito sui rischi del populismo, e di una politica che lo cavalca rinunciando a interpretare la domanda che il popolo esprime col populismo, quella di “essere portato a comprendere meglio la complessità dei passaggi della storia”. 

A me pare tutt’altro che una linea nostalgica o qualunquista. Mi pare un giudizio duro e mirato su fatti che sono avvenuti e avvengono, e che tutti vedono e possono giudicare. Un giudizio che non ha niente di moralistico come quelli che siamo abituati a leggere, ma che è al tempo stesso politico e profetico. Quindi starei attenta a come rispondere a monsignor Galantino, perché qualche commento mi sembra che sbagli mira. Ma soprattutto, se fossi un politico o magari un giovane che vorrebbe diventarlo, rifletterei bene sulle sue parole. Anche perché tutti vedono e giudicano, non solo i vescovi.

Tonini contro i vietcong

Sempre interessante leggere le interviste di Giorgio Tonini, lo dico senza ironia. Oggi parla col Corriere, e dice una frase che mi gira in testa da stamattina. Dice: “In tutta Europa i sistemi parlamentari poggiano sulla disciplina di partito”. Ecco, mi sembra di no.

Non solo perché, poche pagine più avanti proprio il Corriere, in un costernato ritratto di Jeremy Corbyn, candidato “rosso” in testa nei sondaggi sul congresso del New Labour, ci dice che il Nostro, dalla svolta blairiana a oggi, ha votato contro le indicazioni di partito per cinquecento volte, roba che Fornaro e Gotor sono dei principianti. Il che non gli ha impedito di fare il deputato per trentadue anni e di candidarsi oggi non a fare la scissione ma a guidarlo, il suo partito.

Non solo perché Tonini stesso nella stessa intervista ci spiega che l’Italicum non è pericoloso perché anche in un parlamento di nominati “venticinque vietcong ci saranno sempre”. (E allora perché, se tanto ci sono sempre stati e ci saranno saranno sempre, proprio in questa legislatura li vogliamo sterminare sti poveri vietcong, dico io? Ma che sfiga hanno Gotor e Fornaro?).

Ma è vero che Merkel e Cameron possono contare sui loro parlamentari (per quanto liberi di dissentire), come del resto anche Renzi, che mette una fiducia a settimana e mi pare che l’abbia sempre ottenuta. La direi così, però: la democrazia parlamentare non poggia sulla disciplina di partito, bensì sui partiti. Partiti dico: non partiti della nazione in cui chi entra o chi esce fa lo stesso, non partiti personali in cui uno comanda e gli altri gli dicono bravo su twitter, e chi non si trova bene è un gufo. Partiti con una storia, che non fanno il sito nuovo rendendo inaccessibili tutti i contenuti degli anni precedenti. Partiti di cui i giornali non scrivono “vabbè allora dividetevi”, e gli avversari non dicono “via, cacciate un po’ di gente che i voti ve li diamo noi” senza che dalla segreteria esca una mezza parola che spieghi che nessuno deve azzardarsi a evocare scissioni, che il gruppo dirigente è il garante dell’unità e che non si accettano intromissioni sulla vita interna del partito.

Mi sto dilungando. Ma io parlerei volentieri di questo, più che di disciplina. Scommetto che in quei partiti lì, quelli europei, di disciplina si parla assai poco. Perché non ce n’è bisogno.

Veline a Saigon

Chissà se, in questo delirio propagandistico fatto di “Vietnam”, esami di riformismo, processi parastalinisti a parlamentari rei nientemeno che di presentare emendamenti e (signora mia, dove andremo a finire) votarli, chissà se nelle pause di questa operazione di drammatizzazione assurda, cinica e caricaturale ci sarà – magari prima che cominci il famigerato settembre in confronto al quale l’Armageddon sarà uno scherzo – un giornalista, uno, che chieda a Matteo Renzi e/o ci spieghi:

1) se il presidente del consiglio intende cambiare la riforma costituzionale, come aveva detto lui stesso in un’intervista a Repubblica, come il presidente del senato auspica, come la maggioranza del parlamento è disposta a fare, oppure no.

2) su quali punti pensa a modifiche.

3) con quali voti intende approvare la riforma.

Glie ne saremmo grati.

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Su Azzollini e il Pd, in dieci punti

Dato che sui social network temo di non farmi capire, e invece ci tengo:

1) sono felicissima che il senatore Azzollini non vada in galera. Sono felicissima che chiunque non vada in galera. E neanche agli arresti domiciliari.

2) non ho la più pallida idea sull’esistenza di un fumus persecutionis della procura di Trani contro Azzollini. Non ho letto le carte, nemmeno una riga.

3) però il punto è che il fumus o c’è o non c’è. Non è che il giudizio su una richiesta di arresto può dipendere dal fatto che la procura di Trani prende iniziative un po’ strane o che Azzollini deve avere la presunzione di innocenza come tutti. No: si deve valutare se c’è il fumus e poi votare.

4) per questo non  capisco l’sms del presidente Zanda che dice: leggete le carte e giudicate secondo coscienza. E ci mancherebbe altro che un senatore votasse senza leggere le carte e contro la sua coscienza sull’arresto di un altro senatore. Tanto più che il voto su questi temi è segreto, quindi la coscienza è libera per definizione.

5) a meno che Zanda non volesse dire qualcos’altro, che i senatori Pd infatti hanno capito benissimo, e infatti hanno votato in gran parte (due terzi del gruppo, pare) contro l’arresto.

6) se tu Partito democratico vuoi votare contro l’arresto di Azzollini sei liberissimo di farlo e forse fai bene. Però te ne prendi la responsabilità e me lo spieghi, tu che hai le carte sottomano, anche perché, partito mio, in commissione avevi votato a favore, il tuo presidente aveva definito l’arresto “inevitabile” e così io non ci capisco niente (e il grillino gode).

7) che poi la tua vicesegretaria, caro Pd, dichiari due ore dopo il voto che era meglio votare a favore dell’arresto perché “non solo mi sembra corretto rispettare l’approfondito lavoro della Giunta, che così risulta quasi svilito, ma resto convinta che la politica abbia il dovere di mantenere la massima trasparenza nei confronti dei cittadini e della giustizia. Temo che si sia persa un’occasione per dare un buon segnale di cambiamento”, mi fa proprio cadere le braccia. Perché:

8) mandare in galera qualcuno non è “un segnale di cambiamento” e non si manda in galera nessuno per dare segnali.

9) la Serracchiani non li aveva letti i giornali stamattina prima del voto? Non sapeva dell’sms di Zanda? Come mai non è intervenuta?

10) non ci potete trattare proprio come se fossimo tutti scemi, perché non lo siamo e ci potremmo anche arrabbiare tantissimo.

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Matteo Renzi, un leader senza partito

Ho scritto questo per i giornali locali del gruppo l’Espresso (Il Tirreno, La Gazzetta di Mantova, Il Mattino di Padova, Il Piccolo, Il Centro, La Gazzetta di Reggio, La Gazzetta di Modena, Alto Adige, Il Trentino, Il Messaggero Veneto, La Nuova Sardegna, La Nuova Venezia, La Città di Salerno e altri)

Alla fine, Matteo Renzi ha chiuso la telenovela sulla sua partecipazione alla Festa dell’Unità di Roma nel modo a lui più congeniale: con una trovata comunicativa. Un blitz alla vigilia della data prevista, qualche selfie, una partita a biliardino e niente comizio, con motivazione all’attacco, affidata ai giornali: «Se la vedano loro». Più ancora del curioso fenomeno di un segretario che, invitato alla festa del suo partito, pone per giorni le sue “condizioni” prima di decidere se accettare; che essendo la festa in questione quella di Roma – ed essendo il caso di Roma e della sua giunta guidata da un sindaco Pd in prima pagina su tutti i giornali del mondo – ci tiene a far sapere che però non parlerà di Roma; che infine va alla festa un giorno prima del previsto per premunirsi da “imboscate”, colpisce osservare in rete le foto della serata. Quelle immagini del segretario in mezzo ai militanti assomigliano ben poco a qualunque foto di altri leader in situazioni analoghe, trasmettono freddezza, distanza, forzatura: comunicano estraneità. Continua a leggere

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Perché non vuoi Verdini, ovvero: e adesso, pubblicità

Ho conosciuto un ragazzo che lavora nella pubblicità. Dice che quindici anni fa, appena laureato, ha fatto una selezione come creativo ed è arrivato primo, su diverse centinaia. Dice che da allora si è divertito un sacco, ed è pure un bel posto penso, pagato bene. Però non ne può più. Vuole, vorrebbe, andarsene. Dice che il pubblico italiano è cambiato, anzi ve la dico tutta: che è regredito. Che non è più in grado di capire un messaggio un pochino più sofisticato di “compra questo, è buono”, oppure “prendi quello, conviene”. Niente ironia, doppi sensi, suggestioni: sono cose inutili, anzi danno fastidio, spiazzano. Niente messaggi complessi o almeno un pochino sofisticati. Niente creatività. Sennò la gente si confonde, non capisce. “Prendi questo”. “Accattatevillo”, avrebbe almeno detto anni fa Sofia Loren con un bel po’ di malizia, fascino e (auto)ironia: spot audaci a guardarli oggi, cose che non si fanno più. Continua a leggere

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La disciplina di partito

Nemmeno Matteo Renzi può tutto: nonostante la riuscita operazione mediatica sulle tasse, il tema delle difficoltà del Pd sul “territorio” e dello stato di tensione che quasi ovunque attraversa il partito non si riesce a far sparire dai giornali. Un po’ forse è anche per ingenuità dei dirigenti Pd, che continuando ad alludere a “strette regolamentari” anti dissenso in realtà non fanno che enfatizzare il problema. Ma forse non si tratta di ingenuità, come vedremo.  Continua a leggere