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Eleggere il nuovo senato: l’uovo di Fornaro

Oggi sul quotidiano Il Dubbio

Perché gli esponenti della minoranza Pd insistono nel porre a Renzi le loro condizioni per il sì alla riforma costituzionale, al prezzo di una porta in faccia al giorno? Delle tre condizioni della minoranza – il carattere non plebiscitario della campagna elettorale, la modifica dell’Italicum, l’esigibilità dell’accordo sull’elezione del nuovo senato – le prime due sono tutte “politiche”: dipendono cioè da condizioni generali, che solo in minima parte hanno a che vedere con gli equilibri interni al Pd. Ma per la terza è diverso. E a palazzo Madama c’è qualcuno convinto che la soluzione sia davvero a portata di mano. “E’ la quadratura del cerchio”, dice il senatore Federico Fornaro della legge di cui è primo firmatario insieme ad altri 23 colleghi, intitolata “Norme per l’elezione del senato”. “Perché con la nostra proposta alla fine avremmo senatori che a tutti gli effetti sono scelti dai cittadini; eppure sono a tutti gli effetti consiglieri regionali”.  La proposta è stata presentata il 20 gennaio 2016. Naturalmente non può essere incardinata in commissione e tantomeno votata, dato che è tecnicamente una legge di attuazione di una modifica costituzionale che fino al referendum non è in vigore. “Però – ragiona Fornaro – sarebbe un gesto politico molto forte se Renzi, anziché ripetere come ha fatto ieri che il parlamento provvederà a fare una legge, dicesse che il Pd è pronto dopo l’approvazione della riforma ad assumere la nostra proposta come testo base”. Continua a leggere

Tonini contro i vietcong

Sempre interessante leggere le interviste di Giorgio Tonini, lo dico senza ironia. Oggi parla col Corriere, e dice una frase che mi gira in testa da stamattina. Dice: “In tutta Europa i sistemi parlamentari poggiano sulla disciplina di partito”. Ecco, mi sembra di no.

Non solo perché, poche pagine più avanti proprio il Corriere, in un costernato ritratto di Jeremy Corbyn, candidato “rosso” in testa nei sondaggi sul congresso del New Labour, ci dice che il Nostro, dalla svolta blairiana a oggi, ha votato contro le indicazioni di partito per cinquecento volte, roba che Fornaro e Gotor sono dei principianti. Il che non gli ha impedito di fare il deputato per trentadue anni e di candidarsi oggi non a fare la scissione ma a guidarlo, il suo partito.

Non solo perché Tonini stesso nella stessa intervista ci spiega che l’Italicum non è pericoloso perché anche in un parlamento di nominati “venticinque vietcong ci saranno sempre”. (E allora perché, se tanto ci sono sempre stati e ci saranno saranno sempre, proprio in questa legislatura li vogliamo sterminare sti poveri vietcong, dico io? Ma che sfiga hanno Gotor e Fornaro?).

Ma è vero che Merkel e Cameron possono contare sui loro parlamentari (per quanto liberi di dissentire), come del resto anche Renzi, che mette una fiducia a settimana e mi pare che l’abbia sempre ottenuta. La direi così, però: la democrazia parlamentare non poggia sulla disciplina di partito, bensì sui partiti. Partiti dico: non partiti della nazione in cui chi entra o chi esce fa lo stesso, non partiti personali in cui uno comanda e gli altri gli dicono bravo su twitter, e chi non si trova bene è un gufo. Partiti con una storia, che non fanno il sito nuovo rendendo inaccessibili tutti i contenuti degli anni precedenti. Partiti di cui i giornali non scrivono “vabbè allora dividetevi”, e gli avversari non dicono “via, cacciate un po’ di gente che i voti ve li diamo noi” senza che dalla segreteria esca una mezza parola che spieghi che nessuno deve azzardarsi a evocare scissioni, che il gruppo dirigente è il garante dell’unità e che non si accettano intromissioni sulla vita interna del partito.

Mi sto dilungando. Ma io parlerei volentieri di questo, più che di disciplina. Scommetto che in quei partiti lì, quelli europei, di disciplina si parla assai poco. Perché non ce n’è bisogno.