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Il premio al partito ammazzando il partito

Quindi – grande vittoria – abbiamo strappato a Berlusconi il sì al premio alla lista e non più alla coalizione. Io sono d’accordo. Per chi ha creduto nel Partito democratico, poter finalmente votare direttamente per il proprio partito, e poter puntare a vincere col proprio partito, è una soddisfazione grande, in un paese nel quale per anni per essere cool bisognava parlare male dei partiti, e per avere chances di vittoria alle elezioni bisognava nascondere il partito in qualche calderone indistinto, e per essere leader era meglio se rinnegavi la tua storia di partito. L’avevo anche scritto – altri tempi – qui.
E tuttavia, proprio oggi, mi chiedo: cos’è un partito? Un posto dove io ci sto, ma se io non sono d’accordo si va da Verdini e ci si mette d’accordo con lui per fare quello su cui io non sono d’accordo. E se poi anche un pezzo del partito di Verdini non è d’accordo, chi se ne frega tanto i numeri ci sono. È questo, un partito? Che partito è? Cosa lo voto a fare?

Rassegna Quirinale/4: la domanda che nessuno fa

Niente, davvero niente di interessante. Spin, spin e ancora spin. Incontri interlocutori e pilotatissime voci secondo cui Tizio “avrebbe proposto” Caio, come se l’onere di proporre un nome, aprendo la partita, non spettasse soltanto a chi in questa tornata quirinalizia assomma le cariche di segretario del partito di maggioranza relativa e presidente del consiglio. Ma niente, tutti son lì che “propongono” questo e quello, scrivono i giornali. Vogliono farci credere che, ex premier, vecchie volpi, leader storici, capi politici, sono tutti ragazzini deficienti con una scatola di cerini in mano, che giocano a bruciare i loro preferiti dandoli in pasto ai giornalisti.
Si vedrà col tempo dove vuole portarci chi organizza questo giochino, contando sulla vanità di chi ogni sera deve pur tornare in redazione con in tasca una “notizia”. Intanto nessuno – nessuno – pone a Matteo Renzi una piccola, semplice domanda: perché, a pochi giorni dall’inizio delle votazioni, il leader del Pd non fa niente – niente – per pacificare il suo partito, e anzi drammatizza i dissensi (“Vogliono pugnalarmi alle spalle!”), lancia ultimatum (legge elettorale), provoca strappi (Cofferati), dà platealmente e pubblicamente argomenti a chi lo accusa di essersi messo in mano a Berlusconi contro un pezzo di Pd (incontro con Berlusconi)? Che interesse ha a fare questo? Che messaggio sta trasmettendo, non alla minoranza Pd, ma all’Italia? Perché lo fa? Non sa fare altrimenti? Non può fare altrimenti? Non vuole fare altrimenti?
Ma le domande, si sa, non vanno di moda. Meglio giocare al Totoquirinale, vuoi mettere? Chi propone oggi la Bindi? Interessante, no?

Rassegna Quirinale: la dottrina Formica

(Inauguro oggi una serie di articoli che se mi andrà proseguirò. E se no, no)

In un colloquio con Fabio Martini della Stampa, e più esplicitamente in un’intervista a Francesco Romanetti del Mattino, Rino Formica non si limita a sponsorizzare per la presidenza della repubblica Giuliano Amato, “non certo” (vabbè) perché è un suo amico e un ex socialista come lui, ma perché ha tutte le caratteristiche e i requisiti a suo avviso richiesti.
Formica afferma con sicurezza e quasi tra le righe una cosa che messa così è una notizia non da poco: e cioè che il patto del Nazareno è finito. Una fase chiusa. “Un rottame”. Così sul Mattino:
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Ma perché al quarto voto? (Storia di una bugia, o di un imbroglio)

(Questo post è stato scritto per Huffington post Italia)

Matteo Renzi ha detto più volte che il nuovo presidente della repubblica sarà eletto alla quarta votazione, la prima in cui il quorum richiesto scende da due terzi a metà dell’assemblea dei grandi elettori. Un modo per impegnarsi a fare (relativamente) presto, e anche un modo, si dice, per tenere sotto pressione i grandi elettori: come dire non fate scherzi, non puntate alla palude, perché se non ce la facciamo in pochi giorni mi arrabbio e andiamo a casa tutti.
Tuttavia questa impostazione metodologica non ha alcun senso logico, e stupisce che nessuno, nelle numerose interviste e conferenze stampa del premier, glie ne abbia ancora chiesto conto. Come ha ricordato qualche giorno fa sul Foglio Giuliano Cazzola evocando il precedente dell’elezione di Francesco Cossiga nel 1985 alla prima votazione, se davvero si vuole eleggere il presidente coi voti dell’opposizione politica non si può che puntare a eleggerlo nelle prime tre votazioni: semplicemente perché, dopo, i voti dell’opposizione non servono più. È dunque interesse innanzitutto di Silvio Berlusconi e del “Patto del Nazareno”, cioè anche di Renzi, che il presidente venga eletto con la maggioranza dei due terzi e quindi col necessario apporto di Forza Italia. È certamente questo l’obiettivo di Berlusconi (come di Alessandro Natta nell’85 e di Berlusconi stesso due anni fa), se vuole che i suoi voti siano determinanti. Continua a leggere

Ossessionati da Berlusconi a chi?

(Questo post è stato pubblicato su Huffington post Italia)

No però scusate, ma ossessionati da Berlusconi a chi? Io non ce l’ho mai avuta, l’ossessione. Io mi definivo una cattolica di sinistra da prima che Berlusconi scendesse in campo, sebbene fossi molto giovane, e tale mi definisco ancora adesso, vent’anni dopo, e intendo restare tale per i prossimi vent’anni almeno. Non c’entra niente Berlusconi con quello che sono.
Io in questo ventennio non ho mandato i post it, non mi sono fatta le foto col bavaglio, non sono andata in piazza con la Guzzanti e con Travaglio.
Io ho criticato, se non le condividevo, le decisioni dei magistrati.
Ho scritto articoli in difesa di Ottaviano Del Turco, arrestato da presidente della regione in carica perché uno indagato per corruzione si era fatto una foto con un sacco pieno di non si sa cosa davanti alla porta di casa sua.
Ho sostenuto che regolamentare le intercettazioni telefoniche fosse necessario e non fosse necessariamente una legge bavaglio.
Ho detto e pensato che probabilmente le inchieste e i processi sulla vita privata di Silvio Berlusconi non sarebbero andati lontano, e che comunque non avevo bisogno di quelle inchieste e di quei processi per confermare la mia opinione politica e anche morale sulla persona pubblica di Silvio Berlusconi.
Ho cercato di ragionare su questioni come la fine della vita come su questioni complesse e drammatiche, quali sono, indipendentemente dalle posizioni strumentali che via via assumeva il Cavaliere.
Ho sostenuto che sulle riforme costituzionali si dovesse dialogare con tutti, soprattutto con chi rappresentava l’altra metà del paese.
Ho apprezzato anche il patto della crostata e la Bicamerale, come il tentativo, forse ingenuo nella modalità, di trovare una mediazione, perché la cultura della mediazione è la mia cultura politica e non è l’inciucio, è Aldo Moro. Continua a leggere

Il mio stipendio online? Ce l’avete già messo

Leggo sui giornali di oggi che come ritorsione contro il voto di alcuni esponenti del Pd che ha mandato sotto il governo in commissione alla camera sulla riforma del senato, qualcuno nel partito pensa, cito, di “mettere online il bilancio delle segreterie Bersani ed Epifani, con relative spese e stipendi degli staff”. Lascio a ciascuno il giudizio sulla qualità di questi argomenti e di questi metodi per gestire un dissenso politico. Chissà cosa c’entrano “gli stipendi degli staff” con le scelte di voto di alcuni parlamentari sulla costituzione. Sull’argomento però ho qualcosa da dire, anzi tre cose: per fatto personale.

1) i bilanci delle segreterie Bersani ed Epifani sono già online, sul sito del Pd. Sono stati messi in rete senza che nessuno ne facesse richiesta subito dopo l’approvazione, alla fine di ogni anno di mandato del tesoriere Antonio Misiani, persona sulla cui correttezza non ho mai avuto un attimo di dubbio e che forse dovrebbe reagire, oggi, a queste insinuazioni.

2) per quanto riguarda il mio stipendio da direttore di Youdem, anche quello è già online da quel dì. Venne infatti reso pubblico insieme a quelli di altre persone che lavoravano al Pd (e non di altre, guarda caso) in seguito a un vero e proprio lavoro di dossieraggio. Fu una pagina disgustosa. Non tanto per l’attacco a me, che bene o male ero una dirigente con un ruolo anche “pubblico”. Ma perché finirono alla gogna anche lavoratori e lavoratrici colpevoli solo di lavorare nella segreteria di un dirigente antipatico a qualcuno. Ricordo la messa alla berlina del fatto che al Pd la presidente del partito, Rosy Bindi, avesse una piccola segreteria di due persone, visto che ne aveva già un’altra alla camera come vicepresidente, e “di conseguenza” la critica alle persone alle quali era stato assegnato il compito di lavorare in quella segreteria. Allora i doppi carichi erano considerati una bruttissima cosa, da additare al pubblico ludibrio.
Il mio era uno stipendio molto alto, e contro di me vi fu una campagna violenta sui social network e su alcuni giornali. Repubblica mi inchiodò a un titolo facendomi dire che lo ritenevo uno stipendio “normale”, in realtà io avevo detto – e nell’intervista era riportato chiaramente – che alla luce di quanto sapevo lo ritenevo uno stipendio in media con quelli di altri direttori di una testata giornalistica, per quanto piccola, a diffusione nazionale. Aggiungo che avevo volontariamente lasciato un posto di lavoro a tempo indeterminato da vicedirettore del quotidiano Europa che, a differenza di altri casi analoghi al mio, chissà perché a me e non ad altri aveva negato la possibilità di andare in aspettativa per lavorare per qualche tempo con il segretario del partito. A causa di questa scelta rischiosa, che mi esponeva senza garanzie alle incertezze della politica avevo chiesto al Pd uno stipendio più alto di quello che percepivo in precedenza. Questo perché Pierluigi Bersani, a differenza di tutti i suoi predecessori alla segreteria del partito e degli altri partiti precedenti, si era impegnato a non lasciare in carico al Pd nessun dipendente “ereditato” dal suo staff. Verificare per credere se ha mantenuto la promessa e come si erano regolati gli altri segretari prima di lui.
Per cui mettetelo pure online il mio ex stipendio. L’avete già fatto, per provare a zittirmi, quando ancora lo prendevo, a meno di non pensare che le buste paga mie e di qualcun altro siano uscite dai cassetti da sole. Non ci siete riusciti allora, figuriamoci adesso. Ma se pensate di ricattare qualcuno con questo argomento e di renderlo più obbediente, temo che vi sbagliate.

3) aspettiamo sempre che mettiate online la lista dei finanziatori del partito alla cena dell’Eur, amici. Mica per polemica, solo per la trasparenza che tanto vi piace. E magari anche la lista dei finanziatori della fondazione Open, oggetto di una bella inchiesta della Stampa nei giorni della Leopolda, inchiesta poi caduta nel più totale oblio. Quando volete, amici. Tutto online, come piace a noi del Pd.

Se un partito va a cena con Buzzi

Se in questi giorni ho insistito sui social network sulla necessità che il Pd dica con trasparenza chi ha partecipato alla cena di finanziamento all’Eur del mese scorso non è per un riflesso giustizialista (che non mi appartiene) né per una cinica ritorsione di partito (sebbene forse sarebbe giusto ricordare in che modo l’argomento “trasparenza” e “gestione dei finanziamenti” sia stato usato nel mio partito, il Pd, anche in tempi piuttosto recenti. E mi fermo qui, per pudore).
Il motivo, dicevo, è un altro. Se verrà confermato, come scrive oggi il Fatto quotidiano, che Buzzi o qualche altro indagato nell’inchiesta Mafia Capitale era seduto a tavola alla cena di finanziamento del Pd, non lo considererei uno scandalo. Può capitare a qualunque personaggio pubblico di trovarsi a cena con la persona sbagliata, e del resto è difficile controllare i meccanismi di invito di un evento come quello, in cui si chiede a decine e decine di persone di “portare qualcuno”. La presenza di Buzzi o di altri a quella cena non dimostra niente contro nessuno, e chi è accusato di qualcosa non è certo accusato del reato di cena. Del resto, se le accuse ipotizzate verranno confermate nei processi, una commistione di alcuni esponenti del Pd con certi ambienti sarebbe dimostrata e quindi sarebbe inevitabile che di essa si trovasse un riflesso nella lista dei partecipanti alla cena. Insomma non è certo la cena a dover scandalizzare.

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In viaggio con Eugenio (anima da pirata)

Esce in questi giorni “Andarsene sognando – L’emigrazione nella canzone italiana”, di Eugenio Marino (Cosimo Iannone editore). Eugenio mi ha fatto il regalo di farmelo leggere in anteprima, quest’estate. Mi sono sdebitata con questa piccola nota, che lui ha inserito nel libro. Un libro davvero speciale.

Porto il nome di tutti i battesimi
ogni nome il sigillo di un lasciapassare
per un guado una terra una nuvola un canto
un diamante nascosto nel pane
per un solo dolcissimo umore del sangue
per la stessa ragione del viaggio
viaggiare

(Khorakhanè – A forza di essere vento
Fabrizio De André, 1996)

Quando Eugenio Marino, che conosce la mia passione dilettantesca e un po’ adolescenziale – a differenza della sua, che è dotta e pensata – per i cantautori, mi ha proposto di leggere le bozze del suo libro, pensavo che “l’emigrazione nella canzone italiana” fosse un tema di nicchia, uno tra i tanti argomenti di cui parlano le canzoni. Errore, gravissimo: l’emigrazione è tema fondamentale, fondante, imprescindibile, e questa è la prima cosa che si capisce leggendo queste pagine. Se poi la consideriamo in senso lato, insieme al suo compagno il viaggio – come si fa in questo saggio a mio avviso giustamente, e dirò perché – allora l’emigrazione è IL tema, è tutto. Non c’è da stupirsene del resto, a pensarci: la musica popolare accompagna la storia dei popoli, e l’emigrazione è la storia d’Italia. Così come il viaggio, in fondo, è la storia dell’umanità.
Non ce ne rendiamo conto, perché a pensare alle canzoni degli emigranti uno s’immagina i canti delle mondine, la nostalgia per Napoli, l’epopea dei bastimenti dalla nave Sirio al Titanic del capolavoro degregoriano: ci si sente in dovere di darsi un tono da specialisti, un approccio serioso, un po’ da storici un po’ da sociologi. E invece quando un giro di chitarra introduce “Paese mio che stai sulla collina” attorno a qualche falò distratto e stonato, o quando un karaoke brutalizza “Questa è la storia di uno di noi”, anche allora di emigrazione si canta, e non ci pensiamo. Così questo libro diventa uno strumento per andare avanti nell’avventura da soli, seguendo il viaggio e l’itinerario suggeriti dai propri gusti e dalle proprie passioni, e giocare a chiedersi se in altri frammenti – “per tutti quelli che hanno gli occhi e un cuore che non basta agli occhi, e per la tranquillità di chi va per mare” – non siano per caso nascosti altri pezzi di questa lunga storia. Inconsapevoli, forse: che siamo tutti “viaggiatori viaggianti da salvare”, e figli e nipoti di gente che “parlava un’altra lingua però sapeva amare”. Continua a leggere

Lo straniero

Lui sa fare tutto, ogni tanto lo chiamiamo per qualche lavoretto qui nel condominio. Ma di solito non è lui a chiamare, poi a quest’ora, boh. Tra il suo italiano e la sua timidezza mi ci è voluto almeno un quarto d’ora per capire cosa voleva. Dice che ha trovato una borsa e un portafoglio con dentro documenti di qualcuno, uno straniero. Dice che c’è anche un “biglietto per partire”, insomma: lui pensa che bisogna cercare subito questa persona perché forse deve prendere un treno. Capisco che si risparmierebbe di occuparsene lui, ma “c’è un biglietto”: è urgente. Mi chiede cosa deve fare. Dico ma non c’è un numero di telefono? Dice che non capisce cosa c’è scritto su quelle carte nella borsa, è la borsa di uno straniero che deve andare da qualche parte. Dico senti ma tu sei a posto? Ce li hai i documenti? Dice sì sì, a posto. Dico allora devi andare alla polizia o dai carabinieri. Sai dove andare? Ce ne sono tanti, non so dove sei adesso. Vedi le macchine parcheggiate fuori, c’è scritto polizia o carabinieri. Mi spiega che è dalle parti della stazione Termini. Dico allora vai alla polizia della stazione, o ferma un poliziotto qualsiasi dentro la stazione, ce ne sono sempre. Dice sì, ma per questo io ti ho telefonato. Dice io no italiano, paura che pensano che ho rubato io. Gli spiego che non deve avere paura, perché se avesse rubato o fatto qualcosa di male non andrebbe a cercare un poliziotto, cerco di convincerlo, dico che il poliziotto penserà come ho detto io. Ma lui finalmente riesce a dirmi quello che mi voleva dire: per questo ti ho chiamato. Perché se il poliziotto non mi crede, posso fargli vedere il tuo numero sul mio telefono e dirgli di telefonare a te. Io posso?

Ha richiamato. Dice tutto a posto, mi hanno solo fatto qualche domanda, ma tutto a posto. E dice anche: grazie. Dico hai fatto una cosa giusta, era uno straniero come te, magari poteva trovarsi in difficoltà. Dice: io quello ho pensato. Sei stato bravo, gli dico. Grazie.

Relazioni internazionali. I renziani e il Pse

Come è noto, sentir dire che Renzi “ha portato il Pd nel Pse” mi suscita una certa, motivata, irritazione. Così stamattina, dopo aver letto la lettera del presidente del consiglio a Repubblica (anzi per la verità già dopo le prime tre righe), ho ripubblicato il mio post di qualche settimana fa in cui spiegavo che il Pd oggi è nel Pse non grazie a Matteo Renzi, ma nonostante quello che ne pensavano Renzi e i renziani, che poi, buon per tutti, hanno cambiato idea.
Siccome qualcuno si è arrabbiato e mi ha insultato dicendo che racconto bugie (ma poi non mi ha saputo spiegare quali bugie), vorrei aggiungere altri due fatti circa coloro che sono stati scelti dal premier come i suoi più stretti collaboratori in fatto di politica estera e relazioni internazionali.
Il ministro degli esteri, Paolo Gentiloni, all’indomani del voto della direzione sull’adesione al Pse scrisse questo commento per Europa. Titolo e sottotitolo mi sembrano piuttosto espliciti.
Quanto al sottosegretario alla presidenza con delega alle politiche europee, Sandro Gozi, ha continuato a partecipare “a titolo personale” alle riunioni dell’Ade (lo schieramento centrista europeo, alternativo al Pse), anche per tutta la legislatura europea 2009-2014, cioè dopo che i deputati europei del Pd, sotto la segreteria Franceschini, avevano aderito al gruppo del Pse.
Si tratta, in entrambi i casi, di “renziani della prima ora”. Questo forse può aiutare a capire cosa si pensava e si pensa, in fatto di relazioni internazionali, nell’entourage stretto del premier. E come mai è stato così difficile, per i segretari che l’hanno preceduto (e tuttavia ci sono anche riusciti), costruire l’approdo del Pd nel campo della sinistra europea.