Ho scritto questo per i giornali locali del gruppo l’Espresso (Il Tirreno, La Gazzetta di Mantova, Libertà, Il Mattino di Padova, Il Piccolo, La Gazzetta di Reggio, La Gazzetta di Modena, Il Messaggero Veneto, La Nuova Sardegna, La Nuova Venezia e altri).
“Abbiamo straperso”. Matteo Renzi ha puntato a presentarsi come uno che ha capito: niente “lanciafiamme” – congresso subito, primarie domani – e un’analisi anche severa, da leader consapevole e pronto a ripartire. Ma a ben vedere la sua autocritica – sulla personalizzazione, sugli errori nel rapporto col Sud, le periferie, i giovani, il web – non è stata mai sulla sostanza, ma solo sulla comunicazione. È convinto anzi che la storia renderà giustizia alle sue riforme. Ma davvero Renzi può tornare? Forse, ma le cose dette ieri non bastano. Perché dopo il 4 dicembre del renzismo non resta niente: non c’è più una linea politica e non c’è più un racconto che parli all’Italia, a questa Italia che il 4 dicembre ha svelato.
Non c’è più, innanzitutto, il partito della Nazione. Si può anche non chiamarlo così, se non piace, ma si è dimostrata fallimentare la teoria che ignorando – se non bastonando – molte istanze storiche della sinistra i voti di sinistra sarebbero arrivati lo stesso sommandosi a nuovi voti in fuga dalla destra. Lo avevano già detto regionali e amministrative: non succede. I voti di sinistra persi dal Pd magari non vanno altrove alle elezioni ma gliele fanno perdere e poi se possono tornano per dire No. I voti di destra non arrivano o comunque non abbastanza. Il blocco sociale che Renzi cercava, la “maggioranza silenziosa” per cui ha abolito la tassa sulla prima casa e l’articolo 18, non c’è.
Non c’è più la strategia della disintermediazione, del leader che bypassa i vecchi partiti (prima di tutto il suo) e cerca la sintonia direttamente col popolo. In pochi mesi, Renzi ha dapprima “vinto” il referendum trivelle grazie all’astensionismo, poi ha perso malamente quello sulla costituzione, adesso tifa per le elezioni per non misurarsi col giudizio popolare sulla riforma del jobs act: i plebisciti li perde. Può anche vincere le primarie con un paio di milioni di voti: ma poi? Hanno votato No quasi venti milioni.
Di conseguenza non c’è più l’Italicum, cioè la logica dell’investitura di un leader-capo. Il Pd renziano ha finalmente capito, in ritardo rispetto al 2013, che non c’è più il bipolarismo, e quindi non ha più senso la retorica del vincitore da conoscere la sera delle elezioni. Convertirsi d’improvviso al Mattarellum però appare strumentale: non c’è dietro nessuna riflessione su dove va il sistema politico, anche se qualcuno ieri ha provato a sollevarla. Sembra che Renzi voglia soprattutto preservare, dicendo no al proporzionale, un modello elettorale che preveda la figura del candidato premier, per esorcizzare quanto è avvenuto già in questa legislatura. Ma una legge elettorale non può più scriverla il Pd da solo.
È inoltre venuto meno l’argomento principale del consenso al Renzi nel suo partito: “ci fa vincere”. Renzi, dopo il 2014, ha condotto ripetutamente il Pd alla sconfitta, e il referendum ha fotografato il suo isolamento. Basterà l’alleanza col partito (ancora inesistente) di Pisapia per esportare in tutta Italia un “modello Milano” che proprio in queste ore fibrilla anche a Milano? Non c’è più l’argomento “gli altri hanno fallito”, semplicemente perché ha fallito anche lui, sulla riforma più importante, e sono a rischio anche le altre: il jobs act per via del referendum, la riforma della PA per via della Corte costituzionale, la riforma della scuola per via del fatto che se l’unico ministro “bocciato” è stata la Giannini un motivo ci sarà. Non c’è più la rottamazione, se il volto del renzismo oggi è un pacato sessantenne arrivato alla presidenza del consiglio sulla scia di una sonora sconfitta alle primarie romane. Non c’è più il “populismo soft”: combattere il grillismo con argomenti un po’ grillini – poltrone, stipendi – non ha portato fortuna al Sì e dopo il 4 dicembre il M5S resta nei sondaggi, come da diversi mesi, il primo partito. Non c’è più la strategia di occupazione di televisione e web, che sarà più difficile perseguire fuori da palazzo Chigi e che comunque – per quanto portata all’estremo – non ha funzionato.
Non c’è più infine l’argomento con cui Renzi ha sempre zittito ogni critica: “Vogliono solo riprendersi la poltrona”. Nella sua prossima battaglia, qualunque essa sarà, chi combatterà per riprendersi la poltrona sarà lui, Matteo Renzi. Ambizione legittima, ma dovrà riflettere ancora per riuscirci.