Monthly Archives: July 2014

Caro Matteo, come facciamo a riaprire l’Unità?

(questo articolo è uscito anche su Huffington post)

Caro Matteo Renzi, tu sei contro il finanziamento pubblico. Quando lo abbiamo dimezzato e tu eri ancora una voce critica nel Pd, i tuoi amici, per tuo conto, strillavano in parlamento che dimezzarlo non era abbastanza e andava abolito subito; quando lo abbiamo abolito e tu eri il candidato favorito alla segreteria, i tuoi amici, per tuo conto, e tu stesso, strillavate che il décalage previsto dalla legge per arrivare in qualche anno a finanziamenti zero era troppo lento. Ci furono trattative, per arrivare a una mediazione che fosse per voi accettabile e votabile, ma voi ci teneste a dire che avreste fatto di più e più in fretta. Io non la penso come te, ma ovviamente conta quello che pensi tu, ora che sei segretario del Pd e presidente del consiglio soprattutto.

Tu, caro Matteo Renzi, pensi anche, dicono, non so se è vero, non l’hai smentito, che non te ne frega niente se chiudono i giornali. Cioè, al di là del linguaggio che usi in una discussione con un tuo amico, ammesso che tu l’abbia usato, ritieni che se i giornali non hanno i soldi per campare è giusto che non campino, che in generale, o forse in questo momento, non sia il caso di aiutare finanziariamente il settore dell’editoria, sebbene esso sia in grave crisi, e sebbene i casi di aiuto a settori in crisi esistano e siano esistiti, sotto forme di ammortizzatori straordinari o di idee come per esempio quel meccanismo che a suo tempo venne battezzato con un termine che dev’esserti molto piaciuto, rottamazione. Preferirei che tu la pensassi diversamente, perché questa crisi coinvolge me e tanti colleghi e amici, e anche perché per me se chiude un giornale, di partito o di opinione in questo caso non fa differenza, è grave, e non si può trattare la libertà di stampa come un settore economico come gli altri, dove o reggi alle regole del mercato o chiudi e amen, ma non ha importanza. So che la maggioranza degli italiani non la pensa come me, e un governo deve pensare all’interesse generale, mica posso pretendere che pensi a me, e ovviamente ha le sue priorità e le comunica ai cittadini come crede.

Io però vorrei capire una cosa.

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Twitter e la giornalista

Riepilogando:

Se lavori per il pubblico, sei una parassita.
Se lavori per il privato, sei venduta a un padrone.
Se lavori per una grande testata, sei venduta a un padrone.
Se lavori per una piccola testata, sei una poveraccia che nessuno legge.
Se guadagni tanto, sei una ladra.
Se guadagni poco, non vali niente.
Se sei disoccupata, non vali niente (a differenza di loro, che sanno cos’è davvero la disoccupazione e sono tutti disoccupati a causa delle avversità della vita e delle ingiustizie del mondo).
Se “sei una che parla degli affari suoi su twitter” (cioè pubblichi le cose che scrivi e avverti quando ti capita di andare in tv), allora chiunque con la foto profilo di un supereroe giapponese e il nome fatto di tre numeri e quattro consonanti ha diritto di pretendere di sapere se ti hanno pagato, e quanto, e di insultarti se non metti immediatamente il link dell’estratto conto.
Se t’incazzi e rispondi, sei maleducata.
Se t’incazzi e non rispondi, sei arrogante.
Se una volta o due al mese ti pagano un pezzo, non sei disoccupata.
Se lavori, anche occasionalmente, per un editore diverso da prima continuando a scrivere e a pensare le stesse cose che pensavi e scrivevi prima, sei incoerente.
Se uno che ti ha invitato in tv interviene per dire che lui invita in tv chi vuole e ha invitato te perché gli piace come lavori, sei la pupilla di un nuovo capo.
Se passano tutto il giorno a parlare di te su twitter ogni volta che appari in tv o scrivi un pezzo, è la prova che non sai fare comunicazione.

Se rinasco, mamma: cantante di night.

Riformare la costituzione secondo la costituzione

Ieri avevo scritto questo, oggi qualcuno dice che plebiscito è una parola troppo grossa. Allora segnalo due interviste: Giovanni Maria Flick sull’Unità e Piero Alberto Capotosti su Avvenire.

Due costituzionalisti, di cultura e formazione diverse, che dicono la stessa cosa: per riformare la costituzione serve uno spirito costituente, bisogna abbandonare sia la strada dell’ostruzionismo che quella delle prove di forza e delle tagliole. Questo è il senso dell’articolo 138, che chiede di cercare in parlamento le intese più larghe possibili e non intende il referendum come la concessione di un governo o di una maggioranza o la materia di uno scambio tra partecipazione e velocità.

Sarebbe bello se ci fosse ancora tempo per riformare la costituzione con il metodo previsto dalla costituzione. E con la politica, magari.

Pd, abbiamo un problema: il governo vuole il plebiscito

(questo post è uscito anche su Huffington post Italia)

Mi chiedevo stamattina, e i giornali non mi avevano aiutato a capire, come avrebbe fatto il governo a dar seguito al tweet del ministro Boschi, cioè ad assicurare che il referendum confermativo sul nuovo senato si svolgerà “comunque”, anche se la modifica costituzionale sarà approvata con la maggioranza dei due terzi. L’articolo 138 della costituzione infatti è molto esplicito: “Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti”.
Un amico senatore, Salvatore Margiotta, mi aveva raccontato su twitter che anche Roberto Calderoli ieri ha posto il problema in Aula, immaginando una modifica al 138 da approvare prima del nuovo senato; una via un tantino macchinosa, e infatti avevamo sghignazzato sull’eventualità di otto votazioni (due doppie letture) e poi un referendum sul referendum, nel caso la modifica al 138 non avesse raggiunto il quorum necessario.
Adesso, sull’Huffington post, il senatore Andrea Marcucci svela invece qual è il vero piano del governo. “Un accordo politico che ci impegni a non raggiungere i due terzi nelle letture determinanti”. La soglia prevista dal 138, infatti, è per Marcucci “un obiettivo possibile in seconda lettura. Perciò impegniamoci per non raggiungerlo”. È un piano la cui genialità non può essere sottaciuta: basta con le riforme condivise e la ricerca di accordi, questa è roba da vecchio Pd. La nuova politica è un’altra cosa, e peccato per chi non la capisce: cercare di non avere la maggioranza dei due terzi anche se sarebbe possibile, questa è la nuova politica. Continua a leggere

Signora libertà, signorina fantasia

Lasciamo perdere Fanfani, che io vorrei essere abbastanza brava da scrivere un pezzo che gli renda giustizia e spieghi come Amintore Fanfani sarebbe esattamente il presidente del consiglio e il leader politico che servirebbe adesso all’Italia: riforme vere, no chiacchiere, roba di sinistra come nazionalizzazioni e piano casa, che se le facesse qualcuno oggi farebbe impallidire Chavez; ricostruzione dell’economia di un paese e delle sue istituzioni democratiche, organizzazione di un vero e moderno partito popolare di massa, l’unico momento, forse, della storia d’Italia in cui la politica è davvero stata più forte dell’antipolitica. Altro che Rieccolo, altro che vostra moglie scapperà con la cameriera. Non ci si può mica fermare sempre alla prima riga della pagina di Wikipedia, Gesù.
Lasciamo perdere Fanfani, dicevo: ma almeno De André. Fiumi d’inchiostro e nessuno che noti e faccia rispettosamente notare al ministro Boschi che cos’è quella canzone: una lettera aperta a un grande amore che forse muore e però non morirà mai e sempre torna a esistere come un miracolo, ma un amore che non è una donna: è l’anarchia.
Ascoltatelo un po’ De André, benedette ragazze, se proprio volete citarlo. Perché è un po’ difficile motivare un richiamo all’ordine e alla disciplina citando una frase di De André, e tuttavia passi, che tanto qua vi fanno passare tutto. Ma se proprio dovete citarla, almeno evitate di citare “Se ti tagliassero a pezzetti” proprio il giorno che avete deciso di mettervi un tailleur grigio fumo.

Cara Lucia Annunziata, su Berlusconi non ci siamo sbagliate

(questo post è uscito anche su Huffington post Italia)

Ho letto un bel pezzo di Lucia Annunziata e tanti altri commenti delusi o autocritici di persone che in questi anni si sono opposte a Berlusconi e mi pare che stavolta però non si colga il punto. Non capisco perché si deve dire che siamo sconfitti perché la sentenza ha stabilito che il Cavaliere è un politico integerrimo. Non è così, non era questo il punto: e non solo perché Berlusconi ha altre condanne e altri processi, ma perché nessuna sentenza è sull’integrità di una persona, e nessuna sentenza è un giudizio politico.

Il mio giudizio su Silvio Berlusconi non dipende da una sentenza, come non dipendeva dalle sentenze precedenti. E non è neanche un giudizio morale, è un giudizio negativo su un uomo politico, sulla sua idea dell’Italia, sulle sue scelte politiche e su come ha interpretato il suo ruolo pubblico.

E nemmeno il mio giudizio sull’opposizione a Berlusconi dipende da una sentenza: abbiamo fatto bene a opporci, abbiamo fatto bene a non votarlo. Lo abbiamo anche battuto, per via politica e non per via giudiziaria: nel ’96 e nel 2006 e anche nel 2013 (sì, lo abbiamo smacchiato), impedendogli la strada di altre leggi ad personam e una prova di forza sul Quirinale, e costringendolo ad affrontare finalmente i processi senza la possibilità di farsi assolvere dal Parlamento.

Sul caso specifico penso che la vicenda di Ruby e delle Olgettine sia uno squallore che avrebbe determinato la fine della carriera di un politico in qualunque paese: ma non perché lo decide la magistratura, perché lo decide l’opinione pubblica. E in effetti un po’ questo è successo, un anno fa. Vediamo di non essere noi adesso a convincere gli italiani che Berlusconi era “un politico integerrimo” e quindi bisogna tornare a votarlo.

È tutto un complesso di cose

È che ho letto che oggi Gino Bartali compie cento anni. Diciotto luglio millenovecentoquattordici.
È perché come si fa a restare indifferenti alla poesia del clclismo, anche se non ne sai tanto, ma Gianni Mura quando puoi lo leggi sempre no? È per quella storia dell’attentato a Togliatti, quel profumo di Italia antica, di racconti dei nonni, di democristiani e comunisti che si davano una mano, sempre, nell’emergenza. È perché De Gasperi dopo gli chiese che cosa vorrebbe come regalo, come ricompensa, come riconoscimento dallo Stato. E lui rispose: “Non pagare le tasse per un anno”, e De Gasperi: “Eh no, questo non si può”.
Per un anno.
Questo non si può.
È perché ho letto un bellissimo pezzo di Antonio D’Orrico sul Corriere.
È perché è vero: “Bartali“, di Paolo Conte, è una delle più belle canzoni della storia della musica.

Una cosa sul garantismo, anzi su Errani

C’è qualcosa che non mi torna in tutti questi articoli sulla svolta garantista del Pd. Ci ho rimuginato un bel po’ sopra e penso fondamentalmente sia questa: con il caso Errani il garantismo non c’entra niente, almeno per quanto mi riguarda. E credo non c’entri niente, il garantismo, neanche con quello che succede in queste ore nel Pd. So che questa è la parola che ha usato il presidente del consiglio nei suoi tweet, “questo si chiama garantismo” ha detto, e mi dispiace non essere mai d’accordo con lui, ma non sono d’accordo neanche stavolta. Il garantismo è un principio generale, e per me sacrosanto. Deve valere per tutti, colpevoli o innocenti, simpatici o antipatici, onesti o disonesti. Tutti devono potersi difendere e hanno diritto a un trattamento equo e umano, a non essere processati in piazza e a essere ritenuti e trattati da innocenti fino al giudizio definitivo.
Mi pare però che si confonda il rispetto della magistratura e delle sentenze da un lato, e il garantismo dall’altro, con qualcosa che non c’entra. Provo a spiegarla così: io resterò convinta che Vasco Errani sia un uomo onesto anche se venisse condannato in via definitiva (cosa che sono certa non avverrà). Questo non è garantismo e non è neanche contestare la magistratura o accusarla di complotti: è un giudizio obiettivo sul reato che viene contestato a Vasco Errani ed è inoltre il mio giudizio personale sulla persona di Vasco Errani, di cui mi assumo tutta la responsabilità e che non è sottoposto a un giudice, a nessun giudice.
Come diceva oggi un mio amico, per me valgono le lezioni di Socrate e di Gesù Cristo e quindi rivendico il diritto di credere all’innocenza anche di chi è giudicato colpevole. Anche dopo tre gradi di giudizio. Figuriamoci dopo un 1 a 1. E ho la sensazione di non essere la sola.

Chi se ne frega dell’elettività dei senatori

Ha ragione Antonio Polito sul Corriere di oggi. Colpisce come in pochi colgano il fatto che si stiano riformando il bicameralismo e la legge elettorale senza alcuna riflessione né dibattito pubblico su quale sistema istituzionale e quale sistema politico vogliamo per i prossimi decenni in Italia. Chi se ne frega se i senatori saranno eletti o no, o se la soglia di sbarramento sarà del 4,6 periodico. Spiegatemi a cosa servirà il senato, non quanto risparmieremo in stipendi di senatori. E ditemi se saremo una democrazia come quelle europee o la solita simpatica eccezione macchiettistica.

La morte della politica

Visto che qui non si capisce più chi ci è e chi ci fa, chi non capisce più i fondamentali e chi fa finta: lo so anch’io, grazie, che in un partito la maggioranza decide. Il fatto è che di solito in un partito la maggioranza non dice “alla faccia vostra rosiconi che volevate sabotare, io i voti li ho trovati da un’altra parte e dei vostri me ne frego”. Altrimenti, diciamo, siamo andati un tantino oltre l’idea stessa di essere un partito. E adesso ditemi: volete il disegnino?