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Informazione e propaganda: a margine di un flame su Tony Nelly e sul decreto Dignità

Mi sono ritrovata dentro un curioso flame che vi voglio raccontare. Sabato pomeriggio, mentre ero in spiaggia, ho visto sul telefonino un tweet di Repubblica che rilanciava un pezzo del sito avente come argomento il tweet di una persona che ringraziava polemicamente Di Maio per il fatto di essere prossimo a perdere il lavoro a causa del decreto Dignità. Il tweet era di un account che si chiama Tony Nelly. Giuro: Tony Nelly. Sta cosa mi ha fatto ridere, e così ho risposto: Cioè scusate : io vi voglio anche bene ma questo si chiama Tony Nelly e a voi non v’è venuto nessun dubbio? Ma nemmeno mezzo?

In seguito a questo, non necessariamente a causa di questo eh, sono successe varie cose:
– nel giro di qualche minuto anche il Corriere ha pubblicato un pezzo sul tweet di Tony Nelly disoccupato per colpa del decreto Dignità (e per par condicio ho rilanciato anche questo);
– il mio tweet ha suscitato moltissimi commenti e reazioni, che mentre scrivo continuano a crescere;
– in particolare mi sono divertita molto con un certo Leo (@lctr82) che mi ha scritto: Mia moglie sta per essere assunta a tempo indeterminato. Posso scrivere pure io un tweet, come Tony Nelly, ringraziando Di Maio per il posto di lavoro e poi finire su ? Ho già pronto il nuovo nickname “Mara Tin”;
– 
la collega e amica Cristina Cucciniello, collaboratrice del gruppo L’Espresso-Repubblica, che evidentemente non stava in spiaggia, mi ha segnalato che Tony Nelly esiste,
si chiama Simone, ha 32 anni, è di Biella, il suo nome account è “ilFonf”, ha un profilo Instagram con stesso nick () e – grazie agli amici che lo taggano – si scopre che si chiama Simone Bonino (). numero di googlate necessarie: 2;
altri colleghi e amici del sito di Repubblica hanno gentilmente assicurato a me e ad altri utenti social che la storia era vera e annunciato successivi approfondimenti; 
Repubblica ha pubblicato e twittato – il giorno dopo e con diverse ore di ritardo su Cristina – un pezzo su Simone Bonino che conferma la veridicità della storia all’origine del tweet di Tony Nelly e racconta il suo essere diventato un “caso” in seguito a quel tweet. 

A seguito di questo piccolo episodio ho fatto un paio di riflessioni che vorrei dirvi. Prima di tutto solidarietà a Simone Bonino, che – leggo – si augura di essere lasciato in pace e con cui mi scuso per aver contribuito al casino in cui si è trovato. In bocca al lupo.

Il punto per me non era che la storia di quel tweet fosse vera o no. Non ho dubbi sulla professionalità dei colleghi di Repubblica e sono certa che l’avessero verificata anche prima delle polemiche su twitter. Va detto che la storia presenta alcune incongruenze, che tanti hanno già sottolineato e su cui non torno perché i motivi per cui quel ragazzo perderà il lavoro per quanto mi riguarda sono affari suoi, come quelli per cui ha fatto quel tweet e ha scelto di stare su twitter con quell’account (segnalo però che Antonio Bonino non è uno sprovveduto sui social, essendosi laureato, leggo, nel 2011 all’Università di Torino con la tesi in informatica giuridica dal titolo: “Il problema della tutela dei dati personali in internet: il caso dei social network”).

Il punto per me non era Tony Nelly, era la scelta di Repubblica di fare un pezzo su quel tweet, e spero di riuscire a spiegarlo senza fare arrabbiare nessuno. Peraltro era il secondo pezzo in pochi giorni fatto così: il 27 luglio era già uscito quello sulla povera mamma, “prima vittima” del decreto Di Maio.

Sia chiaro: io avrei votato contro il decreto Dignità, se fossi stata in parlamento. La lista che mi rappresenta, Liberi e Uguali, ha votato contro. Però queste due persone non perdono il lavoro per via del decreto; lo perdono perché le loro aziende pretendono che continuino a lavorare per loro a tempo indefinito senza assumerle, come consentito dal Jobs act che il decreto dignità in parte (per me insufficiente) modifica. Dico di più: al loro posto verrà assunto, sempre a termine, qualcun altro. Credo che una informazione completa dovrebbe dire questo, non limitarsi a raccogliere in rete qualche caso esemplare. Anche perché un amico ce l’ho anch’io, si chiama Nicholas e la cooperativa per cui lavora, non potendogli più rinnovare il contratto a termine, gli ha detto che lo assume; ma non mi sognerei mai di farne un fenomeno da social per dimostrare che Di Maio è buono, mica sono la moglie di Leo, mica sono Mara Tin, io.

Infine: non c’è niente di male nel fare propaganda: è un mestiere anche quello. Non c’è niente di male nemmeno nel fare un giornale di partito. Nella mia ormai non breve carriera ho praticato questi mestieri in tutte le loro sfumature, ho un certo know how e sono pronta a metterlo a disposizione. Non sono mestieri facili, nessuno di questi: bisogna saperli fare. Fare un pezzo che fa discutere è certamente un merito. Andare a cercare sui social il tweet con la storiella che conferma una tesi precostituita, però, un po’ meno. Perché quella è propaganda, non informazione. Che sia buona o cattiva propaganda, possiamo discutere. Propaganda comunque non vuol dire malafede. E però propaganda e informazione sono cose diverse. E andrebbero tenute separate.