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Lo storytelling truffaldino della “sinistra conservatrice”

Più che interessarsi della sostanza – abolire l’articolo 18 – che come qualcuno comincia a sospettare al presidente del consiglio sta a cuore fino a un certo punto, e infatti non spiega mai bene né perché né come, a me pare che Matteo Renzi e i renziani più stretti vogliano raccontarci una storia.
La storia (storytelling, direbbero loro) è quella di un’Italia ingessata, vecchia, imbrigliata dai conservatorismi della sinistra (la “vecchia” sinistra of course, ma a Che tempo che fa al premier è scappato pure un mezzo insulto alla “sinistra” senza aggettivi, cosa che ha fatto sobbalzare pure Fazio, che ha dovuto ricordargli, ahem, che il capo della sinistra è lui) e del sindacato. Insomma quella “sinistra conservatrice” che si è sempre opposta alle riforme è il motivo per cui siamo messi come siamo. Mica come Blair, mica come Clinton: sto schifo di sinistra che ci è toccata a noi.
Questa storia, vorrei far rispettosamente notare, non solo è precisamente la storia raccontata per anni dagli avversari politici della sinistra e dagli editorialisti dei giornali di centrodestra. Questa storia, alla quale purtroppo mi pare anche molti di noi finiscono col credere, è proprio falsa.
L’Italia in questi vent’anni non è stata governata dalla sinistra conservatrice, bensì da una destra piuttosto caratterizzata come tale: una destra molto di destra, ecco. Anche perché scusate ma qualcosa non torna: se questa vecchia sinistra plumbea perdeva sempre e ha sempre perso e anzi le piaceva perdere, come dice il premier dall’alto della sua maggioranza misteriosamente originatasi dall’ennesima sconfitta, non vi pare un po’ strano sto fatto che poi sia stata sempre al governo? E infatti i presidenti del consiglio non si sono chiamati Bindi, Bersani, Cofferati e Camusso, se ci fate caso, bensì, prevalentemente, Silvio Berlusconi. Lo ricordate anche voi ora che ci pensate, non è vero?
Lo stesso governo del professor Mario Monti (che non era Che Guevara) era sostenuto da una maggioranza di larghe intese in un parlamento in cui largamente prevaleva la destra (e già che ci siamo è stato fatto per mandare via Berlusconi, non per fare il governo con Berlusconi).
Non solo: quando la sinistra ha governato (perché qualche volta la sinistra in questi vent’anni ha anche vinto, mentre Renzi era distratto) non ha conservato: ha innovato e riformato. Sanità, scuola, trasporti, commercio, energia, gas, professioni, pubblica amministrazione tra le altre cose. Nello specifico, essa ha precisamente introdotto flessibilità nel mercato del lavoro (pure troppa, dice oggi – anzi domenica scorsa al Corriere – non a caso D’Alema, uno dei protagonisti indiscussi delle brevi stagioni della sinistra al governo). Quindi incolpare la sinistra per le rigidità del mercato del lavoro (rigidità che, dimostrano i dati OCSE usciti sui giornali, sono comunque nella media se non inferiori a quelli degli altri paesi europei) è una balla, storicamente infondata e insensata.
Questa è la storia vera, il resto sono chiacchiere per una politica furbetta che rischia di farci rompere l’osso del collo a tutti, non solo a qualcuno. E in questo senso sono inaccettabili dentro un partito e dentro una comunità, che un’idea condivisa di se stessa ce la deve comunque avere.

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Quel ramo del partito emiliano

Stefano Bonaccini è il candidato del Pd alla presidenza della regione Emilia Romagna, auguri.
Bonaccini è stato votato da 34.751 persone. Aveva un solo avversario,
Roberto Balzani, che ha preso 22.285 voti. Ieri hanno dunque partecipato alle primarie del Pd circa cinquantamila persone.
Nel 2009, con due avversari, lo stesso Bonaccini era stato eletto segretario regionale alle primarie del Pd con circa 190.000 voti. Avete capito bene, centonovantamila voti li aveva presi lui, senza contare quelli degli altri due candidati.
Gli iscritti del Pd emiliano, dati storici perché dati ufficiali sul tesseramento di quest’anno non risulta che esistano, sono circa settantacinquemila.
Chissà se qualcuno prima o poi si chiederà com’è messo il Pd, magari non solo in Emilia Romagna dove di solito sta meglio che altrove. O se bisogna aspettare che un campione casuale e numericamente scarso di cittadini, invece di eleggere il candidato favorito e appoggiato dal segretario nazionale, com’è avvenuto stavolta, designi, com’è perfettamente possibile e probabile, qualche illustre rappresentante di qualcos’altro a rappresentare il Pd.
Sarebbero cose interessanti da chiedere al segretario del Pd dell’Emilia Romagna, ma guarda caso è Bonaccini e ora avrà altro da fare. O al responsabile organizzazione del Pd nazionale, ma guarda caso il plenipotenziario di Renzi, Lorenzo Guerini, ha assunto anche questa delega.
Ma va tutto molto bene, perché la gente ci vota, dicono. Seduti comodamente sul ramo che stanno segando.

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Arance e martello (Te lo ricordi, il Piddì?)

Non so se Diego Bianchi abbia fatto un film sulla politica o un film su Roma. Che poi, Roma, vanne a parlare senza la politica. E mica nel senso dei palazzi e delle auto blu che scorrono nella città cinica che aspetta che tutto passi, come sempre. Naaah, questo è quello che pensa chi non ne sa niente, di Roma. A Roma la politica è una passionaccia, è come il calcio. (Come Totti, per chi è devoto, e Diego è devoto).
Roma, per esempio, è uno dei pochi posti dove ci sono ancora i fasci. Ma veri, eh. Fasci di padre in figlio, con la maglietta nera e il tatuaggio con la svastica, fasci che si commuovono a incontrare altri fasci. Fasci che fanno il sindaco, può capitare, a Roma. Fasci che “danno foco alla sezione”, anche.
E poi ci siamo noi, loro, insomma: il Piddì. Il Piddì nel senso che avete capito: Togliatti Longo Berlinguer D’Alema Veltroni, Veltroni D’Alema, Franceschini, Bersani, Totti. O meglio, c’era. Perché il film di Diego ha una terribile sfiga, per un film così: è vecchio. È già nostalgico. Non c’è più Alemanno, non c’è già più quella Roma, e soprattutto non c’è più il Pd.
Vecchio e anche un po’ profetico. Perché Arance e martello non è mica un santino della militanza, scordatevelo eh, e poi c’è già tutto. C’è perfino una Maria Elena Boschi: altro stile, meno ministeriale, ma stesso effetto sui compagni, se mi capite. Si capisce che poi qualcosa andrà storto, che non sarà Totti il successore di Bersani, come sarebbe giusto tranne secondo i laziali (un laziale in sezione, roba da matti!). Che qualcosa già sta andando storto.
E però il Pd, nel film, è bellissimo. Voi non ci crederete, ma nel 2011, nella torrida estate del 2011, c’era davvero gente che metteva giù i banchetti nei mercati rionali per raccogliere le firme per far dimettere Berlusconi. Non perché pensasse che le firme lo avrebbero proprio fatto dimettere, e nemmeno (solo) perché glielo aveva chiesto il partito: ma perché ci credeva. Perché credeva che in sezione ci si va per “radicarsi in un territorio”, e capiva che era questo quello che il partito gli chiedeva, e ne traeva le conseguenze. Ecco, Diego Bianchi, da vero militante che non milita più da anni (autodefinizione perfetta), in questa sceneggiatura ne trae poi le conseguenze fino in fondo, esplorando i confini del grottesco, del surreale, del poetico e del comico. Fa ridere, fa piangere, fa ridere e piangere insieme spesso, e non so cosa possa desiderare di più chi racconta una storia.
A ripensarci poi, fuori dal cinema, resta il pensiero che quella storia, almeno l’inizio e il pretesto di quella storia, è una storia successa davvero in tante case, in tante strade, in tante città in cui persone, volantini, banchetti e bandiere, per mesi, hanno chiesto agli italiani di dire che non volevano più essere governati da Berlusconi. Uno sforzo enorme, fatto insieme, per raggiungere un obiettivo, insieme. Cittadini e politici, militanti e parlamentari. Ognuno col suo compito, sentendosi parte di un soggetto collettivo. E che i protagonisti di quella storia, gli ultimi dei mohicani della militanza politica, sono stati sfottuti, irrisi, oppure messi sotto silenzio (non si sa cosa è peggio) non solo dagli avversari politici ma anche, con rarissime eccezioni, dai giornali e dalle tv. Perché quel Pd non era cool, non faceva notizia.
E poi sono stati traditi. Traditi da chi non ha avuto (abbastanza) fiducia da dare (abbastanza) forza al Pd, e poi traditi dai loro rappresentanti, che non sono stati all’altezza delle responsabilità che avevano comunque avuto, nelle due notti prima del no a Marini, uno di noi, presidente, e poi del secondo tradimento, quello dei 101. E quindi non so se si son stufati, o se hanno cambiato idea, o verso: in ogni caso li capirei.
E però sapete che vi dico? Era fantastico, quel Pd. E io so che c’è ancora.

Ps: non vorrei concludere questo pezzo senza una menzione speciale per la genialità dell’assessore QUATTORDICINE. (Questa la capiamo solo noi di Roma, ed è peggio per voi)

Il video di Renzi: qualche volta un giornalista servirebbe

Disintermediando e disintermendiando, alla fine del videomessaggio di Renzi secondo me un giornalista sarebbe servito. Invece di andare in visibilio per il “ritmo” e per la scelta della colonna traiana come sfondo, il collega avrebbe potuto chiedere: “E quindi, perché volete abolire l’articolo 18?”. Perché lui, il premier, ci dice che Marta aspetta un bambino e Giuseppe è precario, ma dell’articolo 18 NON NE PARLA. Niente. Nemmeno un accenno al motivo per cui il governo ritiene, se lo ritiene, di dover abolire per i nuovi assunti il diritto di non essere licenziati senza una giusta causa. Proprio zero. Se il tema di ieri era l’articolo 18, il video di Renzi è totalmente fuori tema. Scusate, ma a volte un giornalista servirebbe. Se facesse il mestiere del giornalista, chiaro.

Il rutellismo di Renzi (dotto post per cultori della materia)

Dire che il Pd e il governo sono “a trazione Margherita”, come ha sostenuto Claudio Cerasa in una godibile conversazione con Francesco Rutelli sul Foglio, oggi ripresa da Scalfari, significa dire da un lato una banalità, dall’altro una profonda verità.
Non c’è dubbio infatti che Matteo Renzi provenga dalla Margherita, e così molte delle persone di cui si fida e con cui ama lavorare. Non c’è niente di strano, così com’era normale che tra gli amici storici di Bersani prevalessero gli ex diessini. Tuttavia chi vedeva istericamente “rosso” nella precedente gestione del Nazareno aveva torto: con due pesi massimi come la Bindi e Letta al fianco e Dario Franceschini a capo del gruppo alla camera non si poteva certo dire che il Pd bersaniano non rispecchiasse il pluralismo interno. Così come oggi si potrebbe obiettare che Matteo Orfini e Debora Serracchiani (e Roberto Speranza a Montecitorio) “controbilanciano” specularmente l’estrazione schiettamente democristiana di un Lorenzo Guerini e quella a cavallo tra prima e seconda repubblica (e quindi demorutelliana) del nuovo leader.

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Cose da barbari: più indignazione per l’orsa Daniza che per le suore uccise

(Questo post è uscito anche su Huffington post Italia)

Lo sapevo, eh, che mi facevo del male. Quando ho twittato questo: “Avrei voluto vedere la stessa indignazione e dolore di singoli e partiti per la povera orsa il giorno delle tre suore macellate in Burundi”. Apriti cielo (anche tanti commenti positivi, però). Allora, visto che oggi ci appassioniamo all’orsa, a quanto pare, provo a ridirlo usando qualche carattere in più. Primo, chiariamo che la religione non c’entra niente. Non so neanche se quelle tre povere suore sono state ammazzate per motivi religiosi o no, non è certo mi sembra e comunque non è il punto. Io sono contraria a macellare le persone più che ad ammazzare gli animali, va bene? Possiamo fare anche un altro esempio, se non vi piacciono le suore; ma no, non credo che le due cose – vite di persone e vite di animali – stiano sullo stesso piano. Povera orsa, ma il valore di una vita umana per me è più grande di quello della vita di un animale, anzi non è paragonabile. Mi capita di schiacciare una zanzara se mi dà fastidio, mentre evito di ammazzare le persone, anche se mi danno fastidio. (Continua qui)

Intervista sul Pd

Un paio di giorni fa il sito Intelligonews.it mi ha fatto un’intervista. La metto qua, per non perderla. La firma è di Marta Moriconi.

Chiara Geloni è una donna che spegne per sempre i tanti pregiudizi sulle bionde. Su IntelligoNews l’ex direttore di YouDem, da sempre fedelissima di Bersani ma da gennaio disoccupata, con sagacia e lucidità evita polemiche personali ma non si tira indietro alle critiche politiche. Perché “la coerenza per me è un valore” ci dice, ma “ognuno fa le sue scelte”. Chi è più adatto di lei per commentare quello che sembra il riaccendersi di uno scontro interno al Pd che vede (di nuovo) protagonisti consapevoli o meno Bersani, Renzi e D’Alema? Ecco il suo parere sul Pd post-vacanziero.
Sul problema del segretario-premier, Bersani dà ragione a Civati (come ci ha detto) o è il contrario?

“Io rispetto molto Civati che ha fatto una bella campagna alle primarie e secondo me ha assunto un posizionamento politico intelligente dopo. Era difficile perché gestisce un’area faticosa da un piede fuori e uno dentro. Spesso e volentieri lo condivido, però non deve dimenticarsi che se ci troviamo in questa situazione è anche per colpa sua. Il vostro titolo era un po’ malizioso, ma la mia battuta taggata al vostro indirizzo significava che, se ci fosse stata una valutazione maggiore sulle conseguenze del voto dei 101 ma anche sulla scelta di non votare Marini, oggi si sarebbe affermata un’idea di partito un po’ diversa… e che piacerebbe di più anche a Civati”.

Perché è un problema Renzi segretario-premier e perché proprio ora? Continua a leggere

Quello che non ho è una camicia bianca (Piccolo retroscena)

Altri tempi, quel 5 novembre del 2011. Niente camicie bianche, su quel palco, anche perché faceva un freddo notevole mentre calava la sera su San Giovanni. Giacche scure e cravatte rosse piuttosto, roba che non ispirò pindarici voli letterari. Ma pazienza.
“Ricostruzione”, era la parola chiave di quella manifestazione. Altri tempi, tempi di macerie, macerie su cui non si voleva vincere, allora. Il berlusconismo di governo agonizzava, la sinistra europea accettò di venire su quel palco per aiutarci a dare l’ultima spinta. Ci riuscimmo. Pochi giorni dopo quella sera a San Giovanni, il Cavaliere saliva al Quirinale con la lettera di dimissioni.
Ricordo un dettaglio di quella manifestazione con Sigmar Gabriel, il tedesco leader del più antico e grande partito della socialdemocrazia europea, che ci chiamava “compagni” in italiano, e Francois Hollande, nel pieno della sua campagna elettorale, che alla fine decise per un video che nella redazione di Youdem passammo la serata precedente a tradurre e sottotitolare. Ricordo che qualche giorno prima alcuni dirigenti del Pd alzarono il sopracciglio, per questa cosa che Bersani, incontrandoli alla Conferenza dei progressisti di Madrid, aveva incontrato e invitato personalmente i due leader della sinistra di Francia e Germania, i due paesi in quel momento bestie nere del Cavaliere. Eh sì, aveva osato invitare due socialisti, il segretario del Pd. Il che venne ritenuto disdicevole e lesivo del pluralismo e degli equilibri interni del partito, mannaggia.
La grana arrivò a strettissimo giro sul tavolo di Lapo Pistelli, responsabile esteri del partito, che in poche ore fu prodigiosamente in grado di esibire un invito accettato al vicepresidente della Dc cilena, Jorge Burgos, che fu sul palco anche lui con noi quel giorno a prendere applausi in nome delle future vittorie dei progressisti. Il che intendiamoci rese più bella e ricca la manifestazione.
Senza camicia bianca, però. Perché lo scrivo? Perché sono belle le foto di ieri, perché camicia bianca la trionferà. Ma quel minimo di memoria che non ci porti ad attribuire a chi la indossa anche l’invenzione delle asole, è bene che sopravviva.

Quello che non ho
è una camicia bianca
quello che non ho
è quel che non mi manca
quello che non ho
sono le tue parole
per guadagnarmi il cielo
per conquistarmi il sole
(Fabrizio De André)

Meglio di Beautiful

Inizia che lei è su una spiaggia un pomeriggio d’agosto con tre bambini nervosi e annoiati. Lei ha iniziato questo libro, la sera prima. Allora dice ai bambini: dai che vi racconto la storia di Ulisse. E loro sbuffano no, la sappiamo la storia, è Ulisse quello del cavallo, e poi è una storia da grandi. Lei comincia lo stesso, proprio come ha letto nel libro: Ulisse era il re di Itaca, che era un’isoletta piccolissima bianca, piena di sassi e di capre, dentro un mare blu, e un giorno partì perché tutti i re a quel tempo partivano per provare a sposare la donna più bella del mondo, che si chiamava Elena. Succede che una dei tre bambini nervosi si chiami Elena, ed è fatta: racconta!
Succede che quando lei ha raccontato tutto quello che ha letto nel libro, e anche quel poco che inoltre si ricordava della storia, i tre bambini seduti sull’asciugamano ancora insistono: racconta! Vent’anni in mare, e poi cos’è successo? Racconta! Non vogliamo sapere solo Polifemo, vogliamo tutte le storie! Vent’anni! Succede che anche dagli asciugamani vicini diverse signore dicono: non le dispiace vero, se ascoltiamo. Racconta! E lei capisce Omero, dev’essere andata più o meno così, allora. Uno che racconta, e gli altri: racconta! Continua a leggere

Le riforme impopolari

Non sono mica tanto d’accordo con chi chiede al presidente del consiglio di avere il coraggio di fare “riforme impopolari”. Anche perché sospetto che sia un consiglio interessato: Matteo, ora che gli italiani ti hanno dato il consenso, usalo per fare quello che vogliamo noi. E invece no, il consenso è una cosa seria e l’obiettivo di un governo non può essere l’impopolarità. Così come non credo che esistano ricette di governo “giuste” in astratto e impedite da quel fastidioso ostacolo che sarebbe rappresentato dalla democrazia. E però.
Però penso anche un’altra cosa: non si può neanche governare, in tempi difficili soprattutto, facendo credere all’opinione pubblica che sarà sempre qualcun altro a dover fare sacrifici. Per questo, soprattutto nel tempo in cui il #passodopopasso sostituisce l’#adesso e il #cambiaverso, mi suona sempre più stonata la predicazione renziana contro “la palude” e “i gufi”, l’insistere sul “mandare a casa” e “far pagare” chissà chi come soluzione a ogni problema. Non solo perché divide e incattivisce un paese già abbastanza incarognito di suo, e questo non può essere mai un bene, soprattutto per chi governa. Ma perché o un politico riesce a convincere chi lo ha votato (e magari anche chi non lo ha votato) della necessità di uno sforzo corale, e anche di qualche sacrificio, in nome di un obiettivo comune, oppure sarà molto difficile che quel politico raggiunga il suo scopo. A Renzi serve una narrazione più adeguata alla nuova fase, o si fa del male da solo. Mi rendo conto che forse sto chiedendo a Renzi di non essere Renzi, ma in questo caso il problema sarebbe suo, nel momento in cui decide di darsi il passo del maratoneta: o ha il fiato, o non ce l’ha.
Con più tempo per organizzarsi, i “gufi” alla fine possono risultare anche più simpatici degli allegri gelatai. Anzi, mi sembrano già in ascesa.
Su questo (anche) c’è un bell’articolo di Nadia Urbinati oggi su Repubblica.