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Nellaggiungla della notifica. Una multa a Roma

Di solito con le raccomandate c’è poco da illudersi, e infatti anche questa era una multa: cinquantaquattro euro e rotti. La multa per divieto di sosta è una specie di rischio calcolato per chi lavora in centro e si muove in motorino; è il parcheggio a pagamento di fatto che la città ci offre a pochi passi dall’ufficio. Siccome però io le multe di solito le pago – così poi non ci penso più e smetto di rosicare – prima di arrendermi affronto il disordine di casa mia, perché il disordine non è un problema, devi solo capirne la logica. E infatti trovo la ricevuta: la multa l’ho pagata.

A questo punto dovrei chiamare il numero verde, c’è scritto. Zeroseizeroseizerosei. Il numero è simpatico, ma hai voglia ad attendere per non perdere la priorità acquisita: dopo un po’ mi arrendo e decido vabè, vado al comando dei vigili. Continua a leggere

Larghe intese, quegli scoop senza logica

Ho aspettato un bel po’, perché se hai scritto 250 pagine poi non è che può succedere che intervieni per commentare chi le commenta. Però scusatemi, c’è un limite. Troppa gente che non ha letto, troppe teorie senza senso. Ieri sera, alla presentazione di Giorni Bugiardi, non è stata rivelata nessuna storia inedita sulla nascita del governo di larghe intese. E arrivati a  un certo punto la fantasia di molti, in gran parte dichiarati “non ancora lettori” del libro mio e di Stefano Di Traglia, sta galoppando fino a raggiungere livelli francamente offensivi.

Per cui, una volta per tutte: non ha alcun senso la versione secondo cui Bersani avrebbe fatto finta di voler formare un governo di cambiamento solo per poi poter fare digerire alla gente del Pd un governo con Berlusconi. Se Bersani avesse voluto un governo di larghe intese, lo avrebbe fatto lui, accettando le offerte del Pdl e le pressioni di gran parte degli osservatori: è incredibile doverlo ripetere tanto è chiaro, ma Bersani ha rinunciato alla presidenza del consiglio, lo ha fatto in maniera limpida e pubblica, pur di non fare un governo di larghe intese. E se anche Bersani avesse voluto un governo di larghe intese fatto da un altro, non avrebbe avuto alcun bisogno di costruire le cose in quel modo, sopportando offese e critiche malevole e finendo tradito e dimissionato da chi evidentemente proprio per le larghe intese lavorava, e quindi contro di lui, contro la sua segreteria e la sua leadership. Chi sostiene queste cose dice assurdità prive di senso logico.  Continua a leggere

Selfie-auguri per oggi

Oggi presentiamo Giorni Bugiardi. A Roma, al Tempio di Adriano, alle 18. Se non siete a Roma, dovreste poterci seguire in diretta su Sky active e anche su Youdem. Vorrei che ci foste tutti però. Vorrei vedervi arrivare a riscaldarmi il cuore come una canzone di De Gregori. Guardarvi mentre vi avvicinate uno per uno. A passo d’uomo.

Quando con il dissenso non si faceva carriera

(questo post è uscito su Huffington post)

Sentir parlare tanto di disciplina di gruppo, di espulsioni minacciate (o autominacciate), di libertà di coscienza, mi ha fatto tornare in mente una cosa. Perché i voti in dissenso, certo, ci sono sempre stati, dacché i parlamenti esistono. Solo che, ecco, nella prima repubblica votare contro aveva un prezzo. Non necessariamente l’espulsione, ma un prezzo. Non ci facevi carriera, su un voto in dissenso, semmai il contrario. E a nessuno sarebbe venuto in mente di rivendicare il suo diritto al dissenso dicendo “non siamo mica una caserma”. Che poi vorrei sapere a quale persona “normale”, guardando il Pd, viene in mente una caserma. Semmai, come ha detto Epifani, una caserma dove qualcuno sta sempre in divisa e qualcun altro sempre in libera uscita, e questa cosa non è accettabile. Uno può ribellarsi per carità, ma non può avere la ribellione come linea politica. Altrimenti vuol dire che ha sbagliato qualcosa, secondo me.

Insomma, mi è venuto in mente che bisognerebbe farselo raccontare, cosa voleva dire votare in dissenso. Come si faceva, perfino. E siccome io ci ho fatto un libro, a farmi raccontare le cose da chi le ha vissute, mi è tornato in mente che io quel racconto ce l’ho. Tanto per stare tranquilli, e perché a nessuno venga in mente Stalin o il centralismo democratico, la domanda sul voto in dissenso non l’avevo fatta a un vecchio comunista avvezzo all’obbedienza alla “Ditta”. Fu a Domenico Rosati, già senatore democristiano (oltre che già molte altre cose bellissime e importanti) che feci la domanda su quella volta che aveva votato contro la prima guerra del Golfo, in dissenso dal suo gruppo. E gli chiesi di come era arrivato a quella decisione di coscienza, da pacifista cattolico intransigente. La domanda era sbagliata. Infatti mi rispose così: (continua qui)

 

Nella macchina del tempo

Immaginatevi d’aver conosciuto un uomo, una ventina d’anni fa quasi. Di averci passato mesi e mesi, giorno dopo giorno, notte dopo notte, di aver saputo infine di lui tutto quello che è possibile sapere. Di aver cercato ogni scritto, ogni parola che ha lasciato. Di aver preso treni per raggiungere e vedere tutto quello che aveva lasciato in giro. Di aver imparato per lui a usare un computer. Di essere andata a discutere di lui davanti a una commissione, con addosso un orribile tailleur. Di non averci poi quasi più pensato, come sappiamo tutte che succede sempre in questi casi, quando tutto è finito. E di non averlo mai, mai visto in faccia. Fino a oggi.

Lui si chiama Benedetto, Benedetto Varchi. Il suo nome, insomma avete capito, è nel titolo della mia tesi di laurea. Ma allora non c’era wikipedia, e non avevo mai saputo che esistesse un suo ritratto. E invece. Tiziano l’ha dipinto, mica pizza e fichi (come dicevano gli eruditi del rinascimento). E io oggi me lo son trovato davanti all’improvviso. Ho alzato gli occhi, era lui.

Tiziano, Ritratto di Benedetto Varchi

E insomma, io lì sotto a guardarlo, basita. Ser Benedetto ma sa che io non me l’aspettavo che lei era un tipo belloccio. Non il massimo della simpatia magari, questo l’avevo capito. Ma veramente guardi: pensavo peggio, come Spinaceto. Eh? Dico come “Spinaceto lo sai? Pensavo peggio”. No niente, Ser Benedetto. Pensavo tipo un asceta, curvo sui libroni, un po’ grifagno. E invece secondo me le piaceva pure mangiare bene a vederla così, e questo io non me l’ero immaginato. Quasi quasi vorrei che m’invitasse a cena una sera, Ser Benedetto. Due chiacchiere eh, niente di che. No figuriamoci, non è che le sto proponendo di invitarmi a cena, che idea. No scusi scusi, non la sto fissando. È che lei non lo sa, ma io e lei… Niente, niente. Arrivederci eh.

Della superiorità logica dell’impiegato comunale di Roma

Mai discutere con gli impiegati del comune di Roma: sono troppo oltre. Situazione: per avere il certificato elettorale nuovo si deve ritirare il numeretto con la lettera D. Basta poco per accorgersi però che NESSUNO chiama la lettera D: la fila è ferma. Quando ce ne accorgiamo, io e altri cittadini D segnaliamo la cosa agli sportelli liberi: “Vedete che nessuno sta chiamando la D”. “Eh ma signori, qui si fanno molti altri documenti, carte d’identità, certificati di nascita”. Proviamo a insistere: “Sì certo, ma se nessuno fa i certificati elettorali noi aspettiamo per niente”. “Eh, si vede che in questo momento tutti i colleghi stanno facendo altre cose”. Cittadini D (ostentando pazienza): “Sì ma vede, non è che chiediamo niente di particolare; però così la fila rischia di allungarsi molto, e forse sarebbe meglio destinare una persona o due a questo compito, DATO CHE MANCA UNA SETTIMANA ALLE ELEZIONI”. Errore fatale. L’impiegata, al volo: “E visto che manca una settimana alle elezioni, voi nun potevate venì prima?”.

Ps: probabilmente, come li ho finiti io, in molti hanno finito gli spazi per i timbri sul certificato elettorale. Mi meraviglio che questo non sia un tema centrale nella campagna di tutti i candidati. Secondo me rischia di incidere molto sulla partecipazione al voto, e sarebbe molto importante segnalare alla gente in questi ultimi giorni che è necessario – e relativamente semplice – farsi fare un nuovo certificato.

Terrestre

Il ragazzo nel parco forse adocchia la mazzetta dei giornali, sta di fatto che chiede se può sedersi tra me e il signore anziano sulla panchina. Accento spagnolo, ma strano.
“È vero che hanno sparato stamani? Successo cosa?”.
“Sì, due carabinieri”. “E una signora in stato interessante”, dice il signore anziano. Il ragazzo mi guarda perplesso, io faccio il gesto del pancione. “Intanto che giurava il governo”, il signore anziano è preparatissimo e ha molta più voglia di chiacchierare di me. “Da che parte è il vostro governo?”. “Di là”. “Qua vicino?”. “Sì”. “Non sono morti no?”. “No, no”, segue prognosi dettagliatissima.
“Ma era uno un po’…?” (gesto con la mano, quello del matto). Spieghiamo il fatto della crisi, il lavoro perso, il videopoker. “Anche in Spagna c’è crisi, mandano via le persone dalle case perché non possono pagare”. “L’affitto?”. “L’ipoteca”.
“Tu vivi in Spagna?”. “Barcellona, bellissima. Ma Roma bellissima anche. Però io vengo dal Messico. Bellissimo il Messico. Anche lì non hanno soldi, ma bellissimo”. “E sei un turista?”. Sorride: “Sono un terrestre”.
“Adesso riprendo il mio cammino”, dice alzandosi in direzione governo. “Allora ciao, terrestre”. Ride: “Ciao”.

Quando quel giorno Francesco verrà

Emozioni, ricordi, coincidenze. Quando noi eravamo “quelli di San Francesco”. Quando ci dicevamo: “Pensa se un giorno ci fosse un papa Francesco”, pensa che roba sarebbe. Pensa che roba. Quando mettevamo in scena Forza venite gente (che in piazza si va, un grande spettacolo c’è. Francesco al padre la roba ridà. “Figlio degenerato che sei!”). Quando la Francesca cantava la canzone della povertà, quanto era bella la Francesca a ventitré anni quando se n’è andata, e come cantava: “Quando quel giorno Francesco verrà”. 

Quando facevamo le prove di canto, “una pietra dopo l’altra alto arriverai”. Quando il nostro angelo custode era padre Bruno, gesuita. Quello ancora adesso, veramente. Che i gesuiti son persone serie, anche come angeli.
Quando ho sentito “Bergoglio”, che ho iniziato a esultare come al Maracanà e a gridare: “Gesuitaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!!!”. E lì per lì non avevo neanche capito che monsignor Tauran aveva detto: “Franciscum”.

“Francesco, vai e ripara la mia casa”

Luoghi comuni di fine campagna (che non si possono più sentire)

(questo post è stato pubblicato sull’huffington post italia)

Non ho ancora scritto niente sulla campagna elettorale, anche perché ho avuto altro di cui occuparmi. Prima del fischio finale, però, mi devo togliere giusto quei due tre sassolini. Piccoli equivoci, ma non senza importanza, che mi devo proprio levare il gusto di chiarire. Retorica da giornali, più che altro: non conterà per il risultato ma non la posso più sentire. (continua qui )

Pero no cambia mi amor

Pero no cambia mi amor
por mas lejos que me encuentre
ni el recuerdo ni el dolor
de mi pueblo y de mi gente

Primo pensiero (non è vero): Luigi Contu, il direttore dell’Ansa, ha lasciato il computer con l’account twitter aperto e gli hanno fatto uno di quei soliti scherzi cretini. Secondo pensiero (cavolo, è vero): Nanni Moretti è un fottuto genio. O non avrebbe potuto immaginare questo momento. Perché non ditemi che adesso non vi sentite anche voi così, con un mare di pensieri dentro e che non riguardano solo le dimissioni del papa:

Non ditemi che non vi sentivate già così, anzi. Perché ci sono i momenti in cui si capisce tutto, ma la storia stava già passando da prima. Perché hai sempre il dubbio che non ce la possiamo fare ma invece eccoci, siamo pronti. “Oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità”, diceva nonno Aldo. “Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà”. Chissà perché mi viene in mente sempre lui, quando i tempi nuovi s’annunciano. Chissà perché penso sempre che non siamo soli, quando il futuro arriva. E anche se mi sembra di avercela, poi non ho paura, quando lo sento arrivare. E così dai: mettiamo la canzone giusta, e stiamocene per un po’ col naso all’insù. Non durerà molto, prima che si senta una voce che dice: “Uomini di Galilea, perché state a guardare verso il cielo?”. Perché non è dato a noi sapere prima come e quando succederanno le cose. Ma quando succedono, la forza di affrontarle arriva. Prendiamo il largo, che c’è un sacco da fare.