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Arance e martello (Te lo ricordi, il Piddì?)

Non so se Diego Bianchi abbia fatto un film sulla politica o un film su Roma. Che poi, Roma, vanne a parlare senza la politica. E mica nel senso dei palazzi e delle auto blu che scorrono nella città cinica che aspetta che tutto passi, come sempre. Naaah, questo è quello che pensa chi non ne sa niente, di Roma. A Roma la politica è una passionaccia, è come il calcio. (Come Totti, per chi è devoto, e Diego è devoto).
Roma, per esempio, è uno dei pochi posti dove ci sono ancora i fasci. Ma veri, eh. Fasci di padre in figlio, con la maglietta nera e il tatuaggio con la svastica, fasci che si commuovono a incontrare altri fasci. Fasci che fanno il sindaco, può capitare, a Roma. Fasci che “danno foco alla sezione”, anche.
E poi ci siamo noi, loro, insomma: il Piddì. Il Piddì nel senso che avete capito: Togliatti Longo Berlinguer D’Alema Veltroni, Veltroni D’Alema, Franceschini, Bersani, Totti. O meglio, c’era. Perché il film di Diego ha una terribile sfiga, per un film così: è vecchio. È già nostalgico. Non c’è più Alemanno, non c’è già più quella Roma, e soprattutto non c’è più il Pd.
Vecchio e anche un po’ profetico. Perché Arance e martello non è mica un santino della militanza, scordatevelo eh, e poi c’è già tutto. C’è perfino una Maria Elena Boschi: altro stile, meno ministeriale, ma stesso effetto sui compagni, se mi capite. Si capisce che poi qualcosa andrà storto, che non sarà Totti il successore di Bersani, come sarebbe giusto tranne secondo i laziali (un laziale in sezione, roba da matti!). Che qualcosa già sta andando storto.
E però il Pd, nel film, è bellissimo. Voi non ci crederete, ma nel 2011, nella torrida estate del 2011, c’era davvero gente che metteva giù i banchetti nei mercati rionali per raccogliere le firme per far dimettere Berlusconi. Non perché pensasse che le firme lo avrebbero proprio fatto dimettere, e nemmeno (solo) perché glielo aveva chiesto il partito: ma perché ci credeva. Perché credeva che in sezione ci si va per “radicarsi in un territorio”, e capiva che era questo quello che il partito gli chiedeva, e ne traeva le conseguenze. Ecco, Diego Bianchi, da vero militante che non milita più da anni (autodefinizione perfetta), in questa sceneggiatura ne trae poi le conseguenze fino in fondo, esplorando i confini del grottesco, del surreale, del poetico e del comico. Fa ridere, fa piangere, fa ridere e piangere insieme spesso, e non so cosa possa desiderare di più chi racconta una storia.
A ripensarci poi, fuori dal cinema, resta il pensiero che quella storia, almeno l’inizio e il pretesto di quella storia, è una storia successa davvero in tante case, in tante strade, in tante città in cui persone, volantini, banchetti e bandiere, per mesi, hanno chiesto agli italiani di dire che non volevano più essere governati da Berlusconi. Uno sforzo enorme, fatto insieme, per raggiungere un obiettivo, insieme. Cittadini e politici, militanti e parlamentari. Ognuno col suo compito, sentendosi parte di un soggetto collettivo. E che i protagonisti di quella storia, gli ultimi dei mohicani della militanza politica, sono stati sfottuti, irrisi, oppure messi sotto silenzio (non si sa cosa è peggio) non solo dagli avversari politici ma anche, con rarissime eccezioni, dai giornali e dalle tv. Perché quel Pd non era cool, non faceva notizia.
E poi sono stati traditi. Traditi da chi non ha avuto (abbastanza) fiducia da dare (abbastanza) forza al Pd, e poi traditi dai loro rappresentanti, che non sono stati all’altezza delle responsabilità che avevano comunque avuto, nelle due notti prima del no a Marini, uno di noi, presidente, e poi del secondo tradimento, quello dei 101. E quindi non so se si son stufati, o se hanno cambiato idea, o verso: in ogni caso li capirei.
E però sapete che vi dico? Era fantastico, quel Pd. E io so che c’è ancora.

Ps: non vorrei concludere questo pezzo senza una menzione speciale per la genialità dell’assessore QUATTORDICINE. (Questa la capiamo solo noi di Roma, ed è peggio per voi)

Il rutellismo di Renzi (dotto post per cultori della materia)

Dire che il Pd e il governo sono “a trazione Margherita”, come ha sostenuto Claudio Cerasa in una godibile conversazione con Francesco Rutelli sul Foglio, oggi ripresa da Scalfari, significa dire da un lato una banalità, dall’altro una profonda verità.
Non c’è dubbio infatti che Matteo Renzi provenga dalla Margherita, e così molte delle persone di cui si fida e con cui ama lavorare. Non c’è niente di strano, così com’era normale che tra gli amici storici di Bersani prevalessero gli ex diessini. Tuttavia chi vedeva istericamente “rosso” nella precedente gestione del Nazareno aveva torto: con due pesi massimi come la Bindi e Letta al fianco e Dario Franceschini a capo del gruppo alla camera non si poteva certo dire che il Pd bersaniano non rispecchiasse il pluralismo interno. Così come oggi si potrebbe obiettare che Matteo Orfini e Debora Serracchiani (e Roberto Speranza a Montecitorio) “controbilanciano” specularmente l’estrazione schiettamente democristiana di un Lorenzo Guerini e quella a cavallo tra prima e seconda repubblica (e quindi demorutelliana) del nuovo leader.

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Cose da barbari: più indignazione per l’orsa Daniza che per le suore uccise

(Questo post è uscito anche su Huffington post Italia)

Lo sapevo, eh, che mi facevo del male. Quando ho twittato questo: “Avrei voluto vedere la stessa indignazione e dolore di singoli e partiti per la povera orsa il giorno delle tre suore macellate in Burundi”. Apriti cielo (anche tanti commenti positivi, però). Allora, visto che oggi ci appassioniamo all’orsa, a quanto pare, provo a ridirlo usando qualche carattere in più. Primo, chiariamo che la religione non c’entra niente. Non so neanche se quelle tre povere suore sono state ammazzate per motivi religiosi o no, non è certo mi sembra e comunque non è il punto. Io sono contraria a macellare le persone più che ad ammazzare gli animali, va bene? Possiamo fare anche un altro esempio, se non vi piacciono le suore; ma no, non credo che le due cose – vite di persone e vite di animali – stiano sullo stesso piano. Povera orsa, ma il valore di una vita umana per me è più grande di quello della vita di un animale, anzi non è paragonabile. Mi capita di schiacciare una zanzara se mi dà fastidio, mentre evito di ammazzare le persone, anche se mi danno fastidio. (Continua qui)

Quello che non ho è una camicia bianca (Piccolo retroscena)

Altri tempi, quel 5 novembre del 2011. Niente camicie bianche, su quel palco, anche perché faceva un freddo notevole mentre calava la sera su San Giovanni. Giacche scure e cravatte rosse piuttosto, roba che non ispirò pindarici voli letterari. Ma pazienza.
“Ricostruzione”, era la parola chiave di quella manifestazione. Altri tempi, tempi di macerie, macerie su cui non si voleva vincere, allora. Il berlusconismo di governo agonizzava, la sinistra europea accettò di venire su quel palco per aiutarci a dare l’ultima spinta. Ci riuscimmo. Pochi giorni dopo quella sera a San Giovanni, il Cavaliere saliva al Quirinale con la lettera di dimissioni.
Ricordo un dettaglio di quella manifestazione con Sigmar Gabriel, il tedesco leader del più antico e grande partito della socialdemocrazia europea, che ci chiamava “compagni” in italiano, e Francois Hollande, nel pieno della sua campagna elettorale, che alla fine decise per un video che nella redazione di Youdem passammo la serata precedente a tradurre e sottotitolare. Ricordo che qualche giorno prima alcuni dirigenti del Pd alzarono il sopracciglio, per questa cosa che Bersani, incontrandoli alla Conferenza dei progressisti di Madrid, aveva incontrato e invitato personalmente i due leader della sinistra di Francia e Germania, i due paesi in quel momento bestie nere del Cavaliere. Eh sì, aveva osato invitare due socialisti, il segretario del Pd. Il che venne ritenuto disdicevole e lesivo del pluralismo e degli equilibri interni del partito, mannaggia.
La grana arrivò a strettissimo giro sul tavolo di Lapo Pistelli, responsabile esteri del partito, che in poche ore fu prodigiosamente in grado di esibire un invito accettato al vicepresidente della Dc cilena, Jorge Burgos, che fu sul palco anche lui con noi quel giorno a prendere applausi in nome delle future vittorie dei progressisti. Il che intendiamoci rese più bella e ricca la manifestazione.
Senza camicia bianca, però. Perché lo scrivo? Perché sono belle le foto di ieri, perché camicia bianca la trionferà. Ma quel minimo di memoria che non ci porti ad attribuire a chi la indossa anche l’invenzione delle asole, è bene che sopravviva.

Quello che non ho
è una camicia bianca
quello che non ho
è quel che non mi manca
quello che non ho
sono le tue parole
per guadagnarmi il cielo
per conquistarmi il sole
(Fabrizio De André)

Le riforme impopolari

Non sono mica tanto d’accordo con chi chiede al presidente del consiglio di avere il coraggio di fare “riforme impopolari”. Anche perché sospetto che sia un consiglio interessato: Matteo, ora che gli italiani ti hanno dato il consenso, usalo per fare quello che vogliamo noi. E invece no, il consenso è una cosa seria e l’obiettivo di un governo non può essere l’impopolarità. Così come non credo che esistano ricette di governo “giuste” in astratto e impedite da quel fastidioso ostacolo che sarebbe rappresentato dalla democrazia. E però.
Però penso anche un’altra cosa: non si può neanche governare, in tempi difficili soprattutto, facendo credere all’opinione pubblica che sarà sempre qualcun altro a dover fare sacrifici. Per questo, soprattutto nel tempo in cui il #passodopopasso sostituisce l’#adesso e il #cambiaverso, mi suona sempre più stonata la predicazione renziana contro “la palude” e “i gufi”, l’insistere sul “mandare a casa” e “far pagare” chissà chi come soluzione a ogni problema. Non solo perché divide e incattivisce un paese già abbastanza incarognito di suo, e questo non può essere mai un bene, soprattutto per chi governa. Ma perché o un politico riesce a convincere chi lo ha votato (e magari anche chi non lo ha votato) della necessità di uno sforzo corale, e anche di qualche sacrificio, in nome di un obiettivo comune, oppure sarà molto difficile che quel politico raggiunga il suo scopo. A Renzi serve una narrazione più adeguata alla nuova fase, o si fa del male da solo. Mi rendo conto che forse sto chiedendo a Renzi di non essere Renzi, ma in questo caso il problema sarebbe suo, nel momento in cui decide di darsi il passo del maratoneta: o ha il fiato, o non ce l’ha.
Con più tempo per organizzarsi, i “gufi” alla fine possono risultare anche più simpatici degli allegri gelatai. Anzi, mi sembrano già in ascesa.
Su questo (anche) c’è un bell’articolo di Nadia Urbinati oggi su Repubblica.

Per Federica Mogherini, contro il gnegnegne

Da ieri sera ricevo tweet e messaggi (per lo più di sconosciuti) il cui contenuto, al netto degli insulti, è riassumibile in “Mogherini è lady Pesc, gnegnegne, alla faccia tua, perepè, e mo’ che dici?”.
Dico che io sono contenta per Federica Mogherini, che conosco da anni e che so competente e preparata per il compito che avrà. Non ho mai scritto una parola contro Federica, e non ho nemmeno mai detto che il governo non ce l’avrebbe fatta a farla nominare. Non mi è piaciuto quasi niente del modo in cui l’obiettivo è stato raggiunto: non mi è piaciuto come è stato liquidato uno scenario diverso, che era possibile, e che poteva portare a un incarico altrettanto importante (anzi, più importante) per Enrico Letta. Non mi è piaciuto che si sia rinunciato da subito a un ruolo italiano negli incarichi economici. Non mi è piaciuto infine come è stato brandito il nome stesso di Federica, a rischio di esporla a umiliazioni che non avrebbe meritato e di indebolire il suo stesso futuro mandato. Ma la scelta del governo alla fine è stata questa, e nessuna di queste premesse implica che io non debba essere contenta che si sia arrivati allo scopo. (Per un giudizio complessivo sui nuovi equilibri dell’Ue poi ci sarà tempo, mancano ancora troppi tasselli). Continua a leggere

Le secchiate in testa e il limite della politica

Dico due cose su questo fatto delle secchiate d’acqua. Una bella discussione sui social network ieri mi ha fatto capire meglio cosa penso io su quel gesto di Renzi, forse un piccolo riassunto può essere istruttivo.
Dicono dunque i difensori, a me, che non apprezzavo: è stato efficace, mica come un burocratico comunicato stampa. Dicono ha comunicato bene, è trending su twitter. Ok, ma ha comunicato cosa? Dicono: i vip e le star che partecipano con efficacia alle campagne virali sensibilizzano la gente. Ok, ma Renzi non è un vip o una star. E ho anche qualche dubbio che il fatto che tutti parlino di Renzi che si è tirato una secchiata d’acqua in testa significhi automaticamente che tutti sono più sensibili ai problemi dei malati di sla. Se poi vogliamo dire che comunque tutti parlano di Renzi, allora va bene, bravo. Se era questo lo scopo, però, non tiratemi in ballo la terribile malattia e non cazziatemi di insensibilità se dico che a me non piace. Almeno. Perché sennò io potrei essere tentata di rispondere che chi strumentalizza i malati di sla per far parlare di sé è più insensibile di me, e non vorrei farlo. Ma c’è dell’altro. Continua a leggere

Per Federico Orlando, senza cerimonie

So che tu avresti voluto più discrezione, ma lo sai come siamo fatti, noi giornalisti. Scriviamo. Come facevi tu, sempre, fino a tre o quattro giorni fa. Venivi in redazione tutti i giorni, con l’impegno e l’entusiasmo di un praticante, quando fino a pochi anni fa stavamo insieme, a Europa. Leggevi tutto. Chiamavi per commentare e per complimentare. Citavi nei tuoi articoli noi, colleghi giovani e sconosciuti. Una volta, nelle riunioni per il numero zero, qualcuno propose che facessimo come si usava allora al Foglio, un giornale di pezzi non firmati. Ti sei arrabbiato. “No, questi colleghi devono potersi far conoscere! La firma è un valore, e loro firme saranno un valore aggiunto per il giornale!”.
Eri stato il vice di Montanelli, ma non ne parlavi quasi mai. Solo qualche volta, se in riunione veniva fuori qualche volo pindarico di troppo che ci faceva progettare articoli confusi, dicevi con la tua mitezza qualche frase come “eh no, Montanelli diceva: un argomento, un pezzo”. Quante volte l’ho ridetta, quante volte l’ho ripensata.
Ti fece piacere, quando ti chiesi se volevi essere uno degli Highlander della mia trasmissione, poi diventata anche un libro. Avevo intervistato tanti comunisti e democristiani, eri contento di rendere più completo il mio catalogo di testimoni della nostra repubblica “rappresentando” quella che chiamavi con orgoglio “la terza cultura dell’Assemblea costituente”. Sono venuta a casa tua e ho visto la tua vetrina piena di premi giornalistici, ma la telecamera non ce l’hai lasciata neanche avvicinare. Ho visto i ritagli ingialliti dei tuoi primi articoli per giornali che si chiamavano il Molise liberale o il Molise nuovo, catalogati e incollati in un album dalla tua mamma.
Ti chiesi com’era aver passato tutta la vita da moderato ed essersi ritrovato con una fama di eretico e di estremista, un po’ come Oscar Luigi Scalfaro. Hai detto: “Io sono un moderato, come lo era Montanelli. Però abbiamo sempre avuto un principio: che con i comunisti, con i quali non avevamo nulla in comune, avevamo fatto la Resistenza al fascismo, mentre con la destra non avevamo nulla in comune, perché la destra è il fascismo. Questo significa essere estremisti? Io la chiamo coerenza, ma può darsi che sia difficile spiegarlo”.
So che non vuoi cerimonie e non vuoi preghiere. Non so se rispetterò il secondo desiderio, mi fermo qui per rispettare almeno il primo. È stata una vera fortuna lavorare con te.

Diamanti e il renzismo preterintenzionale di Repubblica

Bello il pezzo di Ilvo Diamanti oggi. È vero, non ha senso accusare Renzi di autoritarismo o di attentato alla Costituzione. La personalizzazione della politica è un processo globale, ormai la politica è così, ha cominciato Craxi, figuriamoci.
E vabbè. Poteva almeno aggiungere “tant’è vero che pure noi a Repubblica ormai ci siamo stufati di contrastare questa roba, che quando c’era Berlusconi ci saremmo incatenati a largo Fochetti per molto meno, per non dire di quando c’era Craxi, che ci saremmo incatenati a piazza Indipendenza”, ma si sa lo spazio è tiranno (e comunque giustamente Diamanti evita, di nominare l’Innominabile).
Poteva aggiungere “c’è stato in questi anni chi in effetti ha cercato di contrastare questa deriva, di restituire a questa democrazia per caso uno sviluppo coerente con le premesse della Costituzione, ed è stato uno sforzo titanico, ma in pochi gliel’hanno riconosciuto e l’hanno sostenuto, perché in fondo un po’ di innamoramento direttista, innestato su quel fondo di antipartito, ce l’abbiamo sempre avuto anche noi di Repubblica, altroché se ce l’abbiamo avuto”, ma vabbè, che pretendiamo.
Niente, ha vinto Renzi e Repubblica è contenta. Senza avere inventato nulla, che gli inventori son stati altri. Senza avere un’idea di come dare “senso al caos”, che il caos gli va benissimo così, e il suo PdR nel caos ci si trova da dio.
Magari non diciamo che è così in tutto il resto d’Europa almeno, professore. Nel resto d’Europa non ci sono i partiti personali, ma partiti che sopravvivono ai loro leader, anche ai più forti, e meccanismi per sostituire i leader. Nessuno elegge il premier né pensa lontanamente di farlo. Nessun partito si chiama Pdr, la Cdu non si chiama CdMerkel, e così via.

#101, la carica degli hashtag sbagliati

In questi giorni capita che mi chiami qualche collega perché si riparla dei 101, e mio malgrado anch’io sono diventata un po’ un’autorità in materia, grazie a Giorni bugiardi, il libro che ho scritto con Stefano Di Traglia.
L’enormità e l’inopportunità del paragone, sconfessato del resto dallo stesso Matteo Renzi, sono state già sviscerate, e comunque poco importa tornarci sopra qui, quello che ne penso lo sapete. Invece vorrei dire che in particolare mi ha colpito una cosa, della vicenda di ieri, ed è l’istinto.
Tutti quelli che fanno il difficilissimo mestiere della comunicazione in politica (parlo di politici e di professionisti) sanno che a volte non c’è tempo di ragionare. C’è da controbattere, c’è da twittare, c’è da riempire gli spazi, ci sono i tg da fare. Per questo spesso capita di reagire d’istinto, ed è questo che ieri dopo che è stato approvato l’emendamento Candiani hanno fatto i responsabili della comunicazione del Pd.
E il loro istinto gli ha detto: “Centouno”. Cioè: la “linea” del Pd per un po’ è stata quella, rievocando il momento probabilmente più nero della vita del partito, di dare la colpa al Pd. Non era assolutamente accertato ieri mattina, e non lo è a tutt’oggi, che i franchi tiratori fossero senatori democratici, anzi è ritenuto probabilissimo che in buon numero fossero senatori di Forza Italia. Ma l’istinto del Pd, appunto, è stato questo: difendere Matteo Renzi accusando il Pd. Accusare il Pd per difendere Matteo Renzi. Parlo della comunicazione del Pd eh, non di quella di palazzo Chigi. E a tutti, per un po’, è sembrato normale.
Il che mi pare un fantastico fermo immagine sulla situazione attuale. Del Pd, e non solo.