Indice: Articoli

Totò e Marianna, Marianna che resiste

La prima notifica stamattina è di Marianna, il nome è finto. Marianna fa la segretaria di circolo del Pd, non è renziana ma non passa le giornate a gufare e non se n’è andata dal partito, non è una settantenne emiliana residuo della Ditta ma una giovane insegnante che vive in una grande città.

Mi allega il link con lo splash di Huffington post, titolo “La minoranza Pd è come Totò” e primo piano di Matteo Renzi col più strafottente dei sorrisi strafottenti che ha nel repertorio. Scrive Marianna: “Cara Chiara, ti posso dire che sono veramente schifata, che non ne posso più di leggere queste cose!!!”. Aggiunge: “Scusa se mi sfogo con te”.

Non so cosa rispondere, dico che anch’io in effetti non ne posso più. Lei scrive ancora: “Mi chiedo se valga la pena dedicare tanto tempo della mia vita a questo partito ridotto con questa gente”. Balbetto che la capisco. Che restare chiede più forza e più coraggio che andarsene. Che non potrà durare per sempre così.

Allora lei risponde: “Lo so Chiara. Non è facile essere sempre sbeffeggiati. Ma ha ragione Bersani, non siamo noi a dover andare via, io resisto. Sai che ho invitato al circolo l’onorevole X (della minoranza Pd ndr) e mi ha promesso che verrà a novembre? Stiamo decidendo la data. Sono così felice”.

Ora io volevo dirti solo una cosa, segretario. Tu credi di insultare qualche rompiscatole tipo me o qualche dirigente che ti fa saltare la mosca al naso perché osa contraddirti, ma invece tu insulti Marianna. Sappi che Marianna in un modo o nell’altro tra qualche anno avrà altro a cui pensare, o perché te ne sarai andato tu o perché se ne sarà andata lei. Ma se esiste da qualche parte un Dio della politica, io penso che cose come queste non te le perdonerà.

Pro-Quagliariello. In difesa della scissione dell’atomo

“Ce ne faremo una ragione”, “Io non trattengo nessuno”, e comunque “Va via perché non gli hanno dato un posto nel governo”. Chiaro? Se Angelino Alfano voleva dare ragione a Quagliariello, cioè dimostrare di essere ormai completamente renzizzato, basta leggere le sue reazioni alle dimissioni del coordinatore di Ncd negli articoli dei giornali di oggi. Sono tempi duri per chi prova a dire che qualcosa non va bene, a sollevare qualche dubbio in casa propria. E a dirla tutta, sono tempi duri anche per le persone di buona educazione.

Ciononostante, simpatizzare per Quagliariello (e Giovanardi, e compagnia), cioè per la “destra” (ateo)devota di Ncd non è facile. I commenti sulla “scissione dell’atomo” sorgono, come dire, spontanei. E però non cercatemi, tra gli sfottitori di quagliarielli: non mi trovereste. Quagliariello ha ragione.  Continua a leggere

Let me take you down. (Consigli per il cinema)

Dicono che forse è successo davvero. Che nel 1966, quando John Lennon girava il film Come ho vinto la guerra ad Almeria, sulla costa andalusa, un certo Juan Carriòn, professore d’inglese in una scuola, sia riuscito ad avvicinarlo e a parlargli. E che da allora, dicono, gli lp dei Beatles hanno sempre riportato i testi delle canzoni. Dicono questo, e tutto il resto è – diceva quello – poesia. È la Spagna cupa del regime, è quella musica che profumava di libertà ovunque arrivasse – e figuriamoci sotto Franco – è imparare da qualcuno a non avere mai mai mai paura, anche se hai paura lo stesso. È il radiatore della macchina che fuma, è diventare grandi, è l’amicizia. È saper chiedere aiuto (Help!), è saper aiutare. È avere come supereroe di riferimento un genio incerto che mangia biscotti alla marijuana, un angelo spaventato più famoso di Gesù Cristo, un ragazzo con gli occhiali tondi che ha suonato per il generale ma poi gli ha fatto schifo e forse non vuole suonare più, uno che una volta ha detto: “Essere onesti può non farti avere molti amici, ma ti farà avere quelli giusti”. È avere una passione da trasmettere, e riuscirci. È avere un sogno, e realizzarlo. È ricevere un regalo gigantesco, e regalarlo.

E chissà se è successo davvero, o è solo poesia, che John Lennon ha pensato quel verso proprio lì nella polvere di Almeria, tra le signore vestite di nero sedute in riva al mare e i poliziotti col cappello da toreri a fare le multe a chi caricava gli autostoppisti, vicino a qualche radio che trasmetteva notiziari con le ultime sulle processioni della settimana santa e mai, mai, nemmeno un po’ di quella musica che faceva sognare tutti i ragazzi d’Europa. Se gli è venuto in mente lì che “vivere è facile a occhi chiusi”, ma lasciarsi portare via è meglio. Sognare l’infinito, è meglio.

Se non avete anche voi la fortuna di una fenomenale amica che scova i film poetici come una rabdomante e ti manda un sms che dice “è un film spagnolo, si intitola più o meno così, sto andando, vieni?”, date retta a chi ce l’ha. Andate a vedere questo film, si intitola La vita è facile a occhi chiusi.

 

Non è politica, è decido io

Ma davvero il giorno dopo questa catastrofe romana, con le macerie ancora fumanti, tutto quello che il segretario del Pd ha da dire, il messaggio che fa arrivare alla sua gente, ai suoi elettori romani e italiani, è “Ora niente primarie, decido io“?
Ho detto il segretario del Pd, attenzione. Non il presidente del consiglio. Che commissarierà, stanzierà fondi per il Giubileo, fisserà la data delle elezioni: lavoro suo. Ma il segretario del Pd, il partito che ha scelto questo sindaco, che ha governato questa città, che ha visto abbattersi il ciclone Mafia capitale, che ha commissariato il suo sindaco, che l’ha difeso, che l’ha cacciato, non ha nient’altro da dire che questo?
Non sto parlando di ragioni o torti. Non sto parlando di dirigenti da proteggere o da rottamare: sinceramente me ne frega il giusto, arrivati al punto in cui siamo, dei protagonisti di questa vicenda. Sto parlando di una comunità politica, che adesso dovrebbe fare una campagna elettorale se non sbaglio. Sostenere un sindaco, chiunque lo scelga. Esprimere candidati disposti a impegnarsi, anzi a “metterci la faccia” come si dice adesso, vero Matteo? Che le preferenze mica ci andrai tu a prenderle penso. Una comunità che dovrebbe avere un’idea di se stessa, e un’idea per questa città. Continua a leggere

Non ci canzonate: quattro cose su Verdini

Dopo la fantastica performance televisiva di Denis Verdini sento il bisogno di confutare, serenamente e pacatamente, alcune affermazioni che oggi vanno per la maggiore sui giornali, oltre che – naturalmente – nei peggiori bar di Caracas.

“Verdini canzona la minoranza Pd”. Avrà pure irriso Gotor e Migliavacca, l’amico Denis. Ma io se fossi Luca Lotti, e se Verdini mi cantasse al telefono “La maggioranza sai, è come il vento”, tanto sereno non starei. Maria Latella non aveva chiesto al suo ospite di cantare proprio questa canzone: la scelta, rapida e solo affettatamente riluttante, in un repertorio che immagino ampio, non può essere casuale. Comunque l’immagine di Luca e Denis che ridacchiano al telefono cantando canzoncine su Migliavacca è una fotografia perfetta del momento, grazie Verdini e grazie Latella per avergli chiesto di cantare. Fate girare.  Continua a leggere

Dei civatismi (con affetto) e del fare politica

Il fallimento dei referendum di Civati, di cui mi dispiace molto, spiega bene quello che mi capita spesso di dire sul pd, sulla minoranza Pd, sull’andarsene o restare nel Pd.
1) La politica si fa coi rapporti di forza. Se tu sferri un cazzotto con tutte le tue forze a qualcuno e non gli fai neanche un graffio, dimostri solo che lui è fortissimo. Bisogna dare un cazzotto quando si è sicuri di fare male. O perché quello grosso abbassa la guardia, o perché si è indebolito e tu ti sei rafforzato. Altrimenti, meglio che provi a vedere se graffiandolo gli dai almeno un po’ fastidio.
2) Se tu fai politica da solo, se il tuo simile è il tuo avversario, se ti piace tanto l’idea del “referendum di Civati” al punto che lo lanci senza nemmeno esser sicuro che ti daranno una mano almeno Fassina, Landini e Sel, dimostri solo che sei il solito Civati.
3) Se sei deputato, fai il deputato. Lo so che questa legislatura è uno strazio, lo so che mettono sempre la fiducia, lo so che sei stato eletto su un programma che non ci assomiglia nemmeno alle leggi che ti fanno votare. Ma sei lì, spiegamelo da lì. Non mi mobilitare, che semmai mi mobilito io che faccio il cittadino.
La politica ha le sue regole, che sono abbastanza semplici. Ci torniamo sopra, magari. Ma non si scappa, e non ci sono scorciatoie.
Ti voglio bene Pippo, giuro. E anche a quelli che hanno raccolto le firme, e a quelli che hanno firmato. A quelli soprattutto.

Buoni amici come noi. Il Pd dopo l’accordo sulle riforme

(24 settembre 2015)

Ho scritto questo per i giornali locali del gruppo l’Espresso (Il Tirreno, La Gazzetta di Mantova, Il Mattino di Padova, Il Piccolo, Il Centro, La Gazzetta di Reggio, La Gazzetta di Modena, Alto Adige, Il Trentino, Il Messaggero Veneto, La Nuova Sardegna, La Nuova Venezia, La Città di Salerno e altri)

E qualcosa rimane dunque, tra le pagine chiare e le pagine scure del Pd. Dato spesso per irrimediabilmente diviso dagli antirenziani più accesi, per la seconda volta, dopo l’elezione di Sergio Mattarella, il partito del premier ritrova all’ultimo minuto utile il filo dell’unità interna in un momento decisivo. Data ripetutamente per asfaltata dagli ultrarenziani più convinti, la minoranza Pd segna un punto sostanziale, e ancora una volta il paragone con i giorni dell’elezione del presidente della repubblica non stona.
Non ha molto senso mettersi a discutere su chi ha vinto e chi ha perso, perché è evidente che queste cose avvengono per volontà di entrambe le parti: Renzi ha fatto un’importante concessione sulla questione decisiva, cioè che a scegliere i senatori rappresentanti delle autonomie saranno i cittadini, senza però mollare sul punto che a eleggerli formalmente saranno i consigli regionali. Il risultato è un po’ bizantino, e non contribuirà a rendere più elegante né lineare la nuova versione della nostra Carta, che del resto già non brillava rispetto al testo del 48; ma in politica ci vuole anche realismo e diversamente da così, a meno di rotture, non poteva finire. Curiosamente – senza voler fare paragoni impropri – la soluzione assomiglia proprio al modo con cui il partito democratico elegge il suo segretario: che è scelto dai cittadini con le primarie ma poi non è formalmente tale finché l’assemblea nazionale non ne ratifica l’elezione. Continua a leggere

Antiberlusconiani e mazziati

Da una parte c’è il Fatto quotidiano con i suoi orgogliosi pantheon di antiberlusconiani a prova di martirio, inseguito con qualche comprensibile imbarazzo da Repubblica che si limita ad alzare educatamente il sopracciglio. Dall’altra ci sono gli entusiasmi foglianti per la fine delle sterili contrapposizioni della seconda repubblica, rilanciati con trattenuto entusiasmo dal Corriere della Sera. In questo dibattito originato dalla strabiliante (ma non troppo) affermazione del presidente del consiglio e segretario del Pd che parlando al Meeting di Cl (ma poi anche in un teatro affollato di sostenitori del nuovo corso) ha messo sullo stesso piano berlusconismo e antiberlusconismo accusandoli di avere “bloccato l’Italia” per vent’anni, c’è qualcosa che – chissà perché (si scherza) – nessuno dice. Infatti è difficile da dire, e non tutti hanno titolo.

A sinistra in questi anni non c’è stato soltanto il pantheon del Fatto quotidiano nudo a combattere contro l’orrido inciucio. C’è stata anche una sinistra, spesso maggioritaria, che si è rifiutata di definirsi solamente “contro” Berlusconi. E che per questo ha provato, proprio per non contribuire a bloccare il paese in uno scontro ideologico e sterile, ad agire – quando poteva, cioè quando ha avuto la forza per farlo – come se avesse un fortissimo avversario “normale” (ah, questa parola!). Questa sinistra (riformista? socialdemocratica? normale?) pur con errori e contraddizioni, ha cercato di guardare all’interesse del paese più che a una rendita di posizione elettoralistica ed emotiva. Ha cercato di unire ciò che Berlusconi divideva, preservando lo spirito costituzionale mentre la destra berlusconiana lavorava a demolirlo. Ha cercato di cambiare le cose in maniera concreta e non ideologica, pur non avendone sempre la forza. Ha accettato di correre il rischio di dialogare con la destra così com’era, quando lo imponevano le necessità e le regole costituzionali. Sto parlando di fatti storici e concreti, verificabili, dalla Bicamerale ai governi Monti e Letta.

Questa sinistra ha spesso pagato un prezzo, anche a causa del mood prevalente nella stampa e dell’intellighenzia di sinistra, mai abbastanza sazia di antiberlusconismo militante, che ha alimentato e coltivato uno spirito antagonista e moralista nel suo stesso campo. Con queso mood ha scelto non di combattere, equiparandolo a un avversario anche se spesso lo è stato, ma di confrontarsi con spirito di umiltà e di apertura, di combattere insieme. Spesso senza incontrare altrettanta disponibilità e apertura. E per inciso, di questa retorica antiberlusconiana militante si è nutrita la campagna di logoramento di Matteo Renzi contro il governo Letta, fino a poco più di un anno e mezzo fa quando Berlusconi venne ricevuto al Nazareno.

Oggi, è proprio contro quella sinistra che viene brandita l’accusa di aver “bloccato” il paese. E nessuno sottolinea questa assurdità (con l’eccezione parziale di Piero Ignazi su Repubblica di ieri). Da quali pulpiti, con quali titoli e con quale onestà intellettuale si stia svolgendo questo dibattito (sostanziale e tutt’altro che agostano) sull’identità e le prospettive del Partito democratico, ognuno lo può giudicare.

Caterina. Il Cinquecento è il romanzo dell’estate

Accorgersi di aver letto il racconto della notte di San Bartolomeo proprio la notte di San Bartolomeo è fantastico. Entrare nel racconto della vita di Caterina de’ Medici poche ore dopo aver passeggiato nello studio verde e nei giardini di Chenonceau e aver fotografato il letto della regina è impagabile. Insomma, ci sono libri che ti raggiungono proprio nel momento perfetto per essere letti, e Caterina la Magnifica di Lia Celi e Andrea Santangelo (Utet, 14 euro) l’ha fatto, col fiuto politico di un sovrano rinascimentale.

Ora però non vi consiglio di aspettare il prossimo 23 agosto sera, o di prenotare un appartamento per una settimana a Tours, prima di leggere anche voi Caterina. Ennò, fatelo subito. Vorrete mica perdervi la storia della bambina erede di bottegai fiorentini diventata regina di Francia. La trama, ammettiamolo, è irresistibile. E poi a dirla tutta questo libro non è la biografia della regina Caterina. La biografia è quello che gli autori volevano scrivere, prima di essere travolti. Come da che? Dalla passione e dal divertimento, e dalla curiosità per l’epoca più interessante, strabiliante, straordinaria della storia. Caterina è un pretesto e una scusa, il protagonista è il Rinascimento. È la storia, che incanta e fa ridere (fa ridere davvero eh). Lo so che state pensando a tutta quella successione di guerre e di paci, a quel rompicapo di dinastie che vi ha fatto temere l’esame di storia moderna più della terza guerra mondiale. Scordatevelo. Il Cinquecento è il romanzo dell’estate, e Caterina, la bimba fiorentina concepita come in provetta affinché i Medici incrociassero la storia e i francesi l’Italia, è una protagonista perfetta, cioè imperfetta. Non è bella come una principessa, resta orfana appena nata (del babbo fiorentino, della mamma francese e soprattutto dello zio papa), rischia la pelle un paio di volte prima della maggiore età. E tuttavia… V’è venuta voglia eh? Infatti. Mettetevi comodi. Un macaron prima di iniziare?

Qualunquista a chi

Di politici per il mio lavoro ne ho conosciuti parecchi, e molti di loro sono brave persone. Anzi, nella mia esperienza, mi risulta che la maggior parte sono brave persone. Non è semplicissimo sostenere questa tesi in pubblico o su un social network, ma quando mi è capitato l’ho sempre fatto e lo ribadisco anche qui. So anch’io come ci si sente ad essere oggetto di critiche indiscriminate verso un’intera categoria – i politici appunto, perché anch’io come direttore di Youdem sono stata nel gruppo dirigente di un partito, i giornalisti, le bionde – e so che chi si sente messo nel mucchio ingiustamente fa bene a reagire. 

Però vorrei dire una cosa sulle reazioni alle parole di monsignor Galantino in ricordo di De Gasperi (che potete leggere qui, e se fossi in voi lo farei), perché non è giusto mettere nel mucchio nemmeno le critiche. Il segretario della Cei non ha parlato genericamente di “ladri e corrotti”. Non ha fatto il Marenco, “in galeraaaa”, e non ha fatto il Beppe Grillo, “vaffanculoooo”. Non ha nemmeno criticato, frusto refrain sentito mille volte anche da pulpiti molto ascoltati, “i partiti”. Se leggo bene, Galantino ha fatto riferimento a due difetti precisi della classe politica attuale: da un lato ha parlato di mediocrità e opportunismo (“un piccolo harem di cooptati e furbi”), dall’altro di comportamenti non ispirati a idealità e valori (“un puzzle di ambizioni personali”). Inoltre ha ammonito sui rischi del populismo, e di una politica che lo cavalca rinunciando a interpretare la domanda che il popolo esprime col populismo, quella di “essere portato a comprendere meglio la complessità dei passaggi della storia”. 

A me pare tutt’altro che una linea nostalgica o qualunquista. Mi pare un giudizio duro e mirato su fatti che sono avvenuti e avvengono, e che tutti vedono e possono giudicare. Un giudizio che non ha niente di moralistico come quelli che siamo abituati a leggere, ma che è al tempo stesso politico e profetico. Quindi starei attenta a come rispondere a monsignor Galantino, perché qualche commento mi sembra che sbagli mira. Ma soprattutto, se fossi un politico o magari un giovane che vorrebbe diventarlo, rifletterei bene sulle sue parole. Anche perché tutti vedono e giudicano, non solo i vescovi.