I 101 cinque anni dopo. La vera domanda non è “chi”, ma “perché”

(Scritto per Strisciarossa.it)

Il quinto anniversario del tradimento dei 101 ha riservato qualche amara soddisfazione a noi cultori della materia. Benedetta dall’autorevolezza della firma del direttore dell’Espresso Marco Damilano e dalla collocazione in prima pagina su Repubblica, sembra definitivamente affermarsi una lettura dei fatti che non solo arriva a suggerire se non i singoli nomi almeno l’identikit dei responsabili, attraverso un ragionamento logico che dalle conseguenze politiche del gesto risale all’indietro ai suoi autori/beneficiari nel mondo renziano e in quello dalemiano (la saldatura tra chi non voleva il Prof al Colle e chi voleva “abbattere il cavallo azzoppato” Bersani), ma che ha anche il pregio di individuare con precisione in quella vicenda “l’otto settembre del Pd”: non fu solo Prodi a essere “bruciato” quel giorno, ma il futuro del partito. Due punti che erano il cuore del nostro Giorni bugiardi, il libro di Stefano Di Traglia e mio uscito alla fine del 2013, e che allora risultavano un po’ meno mainstream di adesso.

Dato per acquisito (per quanto possibile) il “chi”, è però forse oggi ancora più interessante e attuale chiedersi il “perché”. Al contrario che nella ricerca dei nomi – dove il presente, cioè quanto avvenuto dopo nel Pd, ci aiuta a illuminare il passato –, nella ricerca dei motivi sono i fatti di cinque anni fa a dare significato allo stallo di questi giorni: in cui non a caso vediamo un vincitore delle elezioni – che per la verità, anche lui, è soltanto “arrivato primo” – invocare i voti necessari per “far partire un governo di cambiamento”, con le stesse precise parole che usava cinque esatti anni fa Pierluigi Bersani.

Non fu solo la banale fame di potere del Giglio magico ad abbattere in sequenza Marini, Prodi e la segreteria Bersani nell’aprile del 2013; tantomeno fu solo una questione di equilibri interni di partito. Consapevoli o no, i 101 traditori (e i loro antesignani della notte precedente, quella in cui tramontò la candidatura di Marini, sempre che non fossero in buona parte le stesse persone) avevano un altro, attualissimo obiettivo: chiudere la strada al “governo di cambiamento”, orientando la legislatura verso le larghe intese. Per questo Bersani, effettivamente “azzoppato” dal risultato elettorale non poteva, chiunque mai avesse potuto venirgli in mente di proporre, fosse pure il neo eletto (da un mese esatto) papa Francesco, vincere la partita del Quirinale: andava “abbattuto”, per la sua ostinazione a non voler guidare il Pd verso un’alleanza di governo con la destra.

Ma cos’è questo “governo di cambiamento”, questo stilema che oggi continua a caratterizzare un altro lungo stallo post elettorale? E soprattutto perché Bersani come oggi Luigi Di Maio, un politico con cui ha così poco in comune, ne era diventato il portabandiera? Conoscendo il personaggio regge poco l’idea di un segretario scavezzacollo, romanticamente attratto dall’idea di cavalcare l’onda grillina a costo di rimetterci la segreteria; ma regge ancora meno la ricostruzione malevola e pure circolata di un Bersani “attaccato alla poltrona” al punto da ostinarsi a rincorrere i 5Stelle a costo della “dignità”: perché semplicemente se Bersani avesse voluto palazzo Chigi a tutti i costi avrebbe potuto andarci a braccetto con Alfano senza che Berlusconi avanzasse la minima obiezione. Dunque che cosa spinse il solido e spesso definito “pragmatico” ex ministro dell’industria con la passione per la filosofia e la storia a cercare in ogni modo di interloquire con i “barbari” del Movimento, anche a costo di rimetterci la leadership?

Probabilmente il motivo è lo stesso che aveva orientato altre scelte strategiche di Bersani segretario, a cominciare dall’accettazione della sfida antistatutaria di Matteo Renzi per partecipare alle primarie, ma potremmo ricordare anche l’affiancamento e il sostegno alle candidature dei sindaci “arancioni” inventati da Nichi Vendola per competere col Pd, o la partecipazione alle campagne referendarie per i beni comuni o il rifiuto di esprimere nomi di partito per il cda della Rai. La verità è che in Bersani c’è costantemente la consapevolezza di avere di fronte una sfida da accettare, che può anche diventare una ricchezza ma solo a costo di vincerla: e questa sfida è quella del distacco, della sfiducia nella politica, della stanchezza per i riti stanchi della prima e anche della seconda repubblica. Un male che Bersani vede arrivare da lontano e vede sempre più prossimo a condurre il sistema al collasso.

Quello che, più o meno propriamente, viene chiamato antipolitica o populismo, per Bersani non va arginato: va sfidato. Ma la sfida vera per lui è coinvolgerlo, costringerlo a scendere dal terreno dei sogni a quello della realtà e del governo dei problemi; e costringerlo a competere. “Fatemi partire”, diceva Bersani nel 2013, per la stessa ragione per cui probabilmente direbbe o magari dirà oggi “fateli partire”: non per un’ambizione di leadership personale ma per la consapevolezza che l’errore fatale per il sistema è chiudersi, isolare chi è “fuori”, illudersi che basti cercare i numeri necessari nell’alleanza tra chi sta “dentro” per risolvere il problema.

Questo hanno provocato i 101, più ancora che due ottimi candidati alla presidenza della repubblica bruciati o della fine anticipata di qualche mese di una segreteria o della distruzione del senso di comunità in un partito: hanno provocato cinque anni di larghe intese e un distacco infinitamente maggiore di prima tra i cittadini e la politica, e soprattutto tra i cittadini e la sinistra. Una sinistra che ha rinunciato ad accettare la sfida del popolo, anche del suo, e si è rifugiata nella prigione dorata dell’establishment. Cinque anni dopo i 101, al termine di una campagna elettorale fondata sugli slogan della “competenza”, del “vota la scienza” e dell’“unico argine ai populismi”, il Partito democratico è ancora lì: ad arrabattarsi per vedere se mai bastassero i numeri per restarci ancora, nel luogo politico dove si è posizionato cinque anni fa. Mentre i populismi vecchi e nuovi prosperano, a destra come a sinistra, e si preparano a giocarsi tra loro tutta la posta. O magari no: che in politica non si sa mai.

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