La sinistra torni a fare la sinistra (anche perché ha vinto la destra)

Ho scritto questo per i giornali locali del gruppo l’Espresso (Il Tirreno, La Gazzetta di Mantova, Il Mattino di Padova, Il Piccolo, Il Centro, La Gazzetta di Reggio, La Gazzetta di Modena, Alto Adige, Il Trentino, Il Messaggero Veneto, La Nuova Sardegna, La Nuova Venezia, La Città di Salerno e altri).

“Perché qua è vero che il centrodestra non c’è più: e però attenzione, ci sono ancora gli elettori”. Così ragionava in privato, qualche mese fa, una vecchia volpe che ha attraversato prima e seconda repubblica. La vecchia volpe si chiama Clemente Mastella, e guarda caso da un paio di settimane fa il sindaco di Benevento. Per il centrodestra, naturalmente. Eh già, forse a mente fredda dovremmo smetterla di ripetere come pappagalli che gli elettori hanno premiato “i volti giovani” e guardarlo un po’ più in profondità un voto che non è stato solo il trionfo delle “ragazze” grilline. Aiuterebbe il Pd ad esempio, nella sua prossima direzione, fare un’analisi un po’ più seria.

L’“Italia di mezzo”, a guardarla bene, dice più cose di quattro o cinque grandi città. E se è certamente vero che dal voto esce chiaro il segnale di una crisi del Pd iperrenzizzato da un lato e dell’inizio degli esami di maturità per un Movimento 5 stelle almeno parzialmente degrillizzato dall’altro, nessuno dovrebbe dimenticare l’esistenza di un terzo incomodo da non sottovalutare.

Il Pd renziano, a lungo cullatosi nell’illusione che le elezioni fossero ormai un “rigore a porta vuota” che bastava non sbagliare, è di fronte alle insidie di uno schema tripolare dove il vero catch all party non è quello del governo e del potere, ma quello dell’opposizione antisistema. Perché gli scontenti, dimenticati dai riflettori nelle periferie che i comunicatori di palazzo Chigi non vedono e che il partito non ha più il radicamento per rappresentare e l’umiltà per ascoltare, nella crisi, sono più dei contenti, e più facili da coalizzare: Brexit insegna, del resto. Ma sbaglierebbe ancora se non vedesse, dietro i successi quasi matematici (diciannove su venti!) dei grillini nei ballottaggi, la resilienza di un avversario, il centrodestra, che dove trova il modo di ricompattarsi, a dispetto di una crisi di leadership nazionale tremenda, rimane competitivo. Il “mezzo miracolo” di cui parlò Renzi a proposito di Giachetti dopo il primo turno, in realtà, l’aveva fatto Berlusconi: se il centrodestra non avesse, a Roma, sbagliato tutto lo sbagliabile, al ballottaggio contro la Raggi probabilmente il candidato del Pd non sarebbe neanche arrivato; a Milano, dove al contrario sono state fatte scelte giuste, unitarie e includenti, un candidato trovato quasi per disperazione e che nei calcoli di qualcuno non doveva neanche entrare in partita, Stefano Parisi, ha perso con onore.

E si dimostra anche piuttosto lucido, questo elettorato di destra che continua a esistere sotto le macerie del Pdl, nello sgombrare il campo da equivoci e scorciatoie: le deludenti performance dei candidati salviniani fanno della Lombardia una paradossale isola felice – o quasi – per un Pd che non solo a Milano non ha mollato il centrosinistra. Perché l’elettorato di destra è pronto a unirsi ai grillini nel rappresentare la protesta o semplicemente l’ostilità al Pd e ai suoi sindaci; ma se può giocarsela è per il governo che se la gioca, non per l’antipolitica.

Ancora più interessante è il fenomeno delle liste civiche. Nelle città piccole e nei paesi il voto di due settimane fa è indecifrabile: sulle tabelle i simboli di partito quasi scompaiono, sostituiti da liste “Noi per”, “Città popolare”, “Cittadini di” eccetera eccetera. Lì, direbbe Mastella, ci sono i voti: che erano del Pdl, dell’Udc, di Alleanza nazionale. Pronti per una nuova proposta, quando qualcuno la farà, e perfetti per convergere nel listone che competerà per uno dei due posti al megaballottaggio dell’Italicum.

Troppo a lungo il “partito della nazione” vagheggiato a palazzo Chigi ha scommesso sulla contendibilità di questo elettorato orfano di Berlusconi. Al punto da competere solo su nuovismo e dosi omeopatiche di populismo anti-Movimento 5 stelle e da disarmarsi su quest’altro fronte, tagliando coi i suoi ancoraggi e la sua storia, come ha scritto Ezio Mauro parlando di “sinistra rottamata”. Eppure sentite il post a caldo di Dino Amenduni di Proforma, non un trinariciuto della minoranza Pd ma un esperto di comunicazione che ha curato la campagna di Giachetti e di Merola: “Per contrastare una forza politica ‘post-ideologica’ e che grazie a questo aggrega elettorati che in condizioni normali sarebbero su sponde opposte esiste solo una possibilità: il ritorno all’ideologia. La sinistra torna a fare la sinistra, la destra torna a fare la destra”. Forse Amenduni pensa sia un suggerimento di comunicazione; invece è una linea politica. Non si tratta ovviamente di tornare al secolo scorso, ma di avere un’identità e un orizzonte culturale chiari. E se funziona così, se serve la sinistra addirittura per battere i grillini, figuriamoci per battere la destra.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *


*