“Il bambino promesso”, romanzo di un’adozione in Kenya

Io avrei avuto paurissima anche solo di quegli insetti misteriosi che arrivano a sciami e volano in verticale contro tutte le leggi dell’aerodinamica. Non parliamo di una locusta sul comodino, o delle formiche killer, o di una macchina in panne in mezzo agli elefanti. Altro? Ok, vigilantes corrotti, meccanici imbroglioni, autisti che ti buttano giù dal pullman senza fermarsi, allarmi tsunami, attentati, avvocati, echi di guerre tribali. Otto mesi in Kenya ci vuole un coraggio da pazzi, per quanto mi riguarda. Figuriamoci andarci con un figlio piccolo, profeticamente chiamato Leone, e andarci per diventare genitori di un altro bambino. E ci sono stati anche benone, loro, invece.

Quando Massimo mi disse che lui e Barbara lo avrebbero fatto ho pensato che questa regola del Kenya – questa regola per cui i sei mesi, o un po’ di più, che passano tra il momento in cui ti dicono chi sarà tuo figlio e quello in cui puoi portarlo a casa con te li puoi passare col bambino, ma devi farlo lì, nel suo paese – fosse una regola geniale. Non alla portata di qualunque famiglia, ma geniale. Ho pensato che avrebbero conosciuto il suo mondo, il suo cibo, i suoi colori. Che avrebbero potuto un giorno accompagnarlo meglio nel comprendere da dove veniva. Ho immaginato la Barbara che imparava ad avvolgersi un pezzo di stoffa per portare il bambino sulla schiena, come le mamme kenyane, e Leone che imparava a disegnare giraffe e zebre accanto ai suoi draghi, e ho immaginato naturalmente che Massimo ne avrebbe fatto un libro.

Il libro ora c’è, e si intitola “Il bambino promesso”. Racconta questa storia come se fosse un romanzo ma non è un romanzo. O forse sì, non saprei mica dirlo, comunque è una storia vera. È l’incontro affascinante con una natura meravigliosa, ovviamente. È l’incontro crudo e senza sconti con una realtà dura, selvaggia, insolente. È una storia di mamme che abbandonano i figli. Di vecchie che strappano quasi il bimbo nero dalle braccia della donna bianca. Di adozioni più difficili di altre, di bambini più misteriosi o più disperati. Di inganni, e tantissimo di fortuna. È un interrogarsi ansioso e cieco su cosa sarebbe stato di quel bambino se. Cosa sarà di tutti gli altri bambini se non. È chiedersi quanto senso abbia salvarne uno. E quanto senso abbia tutto il resto.

È un mondo, quello descritto da Massimo, dove nessuno sembra completamente buono – e dove però nessuno è giudicato. Ci sono eroi che salvano bambini dalla strada a centinaia, ma ti resta il dubbio che siano anche degli imbroglioni. Aprire un orfanotrofio in fondo è un modo di campare, in un mondo come quello: a Nairobi. E comunque nessuno sembra possa diventare davvero un eroe in quell’inferno. C’è un addentrarsi sempre di più in quel mondo, un calarsi dentro una vita con un ritmo diverso, c’è la scoperta, passando pomeriggi interminabili dentro un’officina, che “il tempo per loro è un amico, e non hanno nessuna voglia di ingannarlo o di ammazzarlo. Così, più tempo possono avere a disposizione e più sono contenti: se, dovendo fare una visita, preghi un kikuyu di badare al tuo cavallo spera solo, glielo leggi in faccia, che la visita sia lunga. E una volta accettato l’incarico non tenta di passare il tempo, ma se ne rimane lì seduto, e vive”. Questa era Karen Blixen, ed è Barbara a prendere il libro e a sfogliarlo trovando il paragrafo giusto, sul tavolo di cucina.

Barbara è sempre adeguata a tutto, Barbara trova le parole, Barbara è immensa. Lo è soprattutto nella cosa più importante – che naturalmente è diventare la mamma di Tommy. Lei dopo pochissimo “non ci pensa più”, Massimo invece deve pensarci, e molto. Non so se sia perché è lui a raccontarla, questa cosa di diventare il babbo di Tommy (rimanendo il babbo di Leone), che è così più complicata, per lui. Ma poi, quando succede, è meraviglioso.

Scrivo questo post in evidente conflitto di interessi. Mi legano a Massimo una montagna di cose: la città e l’anno di nascita, l’amicizia sempiterna dei nostri genitori, due fratelli anche loro nati nello stesso anno, il cuore affacciato sullo stesso pontile e sullo stesso specchio di acqua salata e gli stessi tramonti, la stessa Aurelia all’insù e all’ingiù, Claudio Baglioni, e un chirurgo che toglie la miopia col laser. Che anche quest’ultima cosa l’abbiamo in comune mi sono ricordata perché è stato proprio lui, il laserchirurgo, a svelarci lo stesso segreto per come fare a sapere quando la ferita si sarebbe perfettamente chiusa: “Quando comincerai a non pensarci più”.

Massimo Bavastro, Il bambino promesso, Nutrimenti (euro 19.00)

 

One Response to “Il bambino promesso”, romanzo di un’adozione in Kenya

  1. gli hai scritto una recensione emozionante.
    Mi appresto alla lettura, con curiosità ed anche io in palese conflitto di interessi.
    ci incontreremo alla presentazione all’esquilino?

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