Non siamo guariti. Un romanzo su Bersani e la malattia del Pd

Qualche giorno fa, a Padova, ho presentato insieme a Flavio Zanonato e all’autore il libro di Antonio Martini La Guarigione (Alba edizioni, 14 euro). Da un po’ volevo parlarvi qui sul blog di questo libro, che nel frattempo è stato recensito sul Corriere del Veneto e che è piaciuto molto a Gad Lerner. Si tratta di un romanzo, ispirato però ai fatti (veri)  avvenuti all’inizio del 2014: la malattia di Bersani, ma anche la caduta del governo Letta e le varie vicende (anche precedenti) del Pd. Se ve ne parlo oggi non è solo perché il libro è finalmente disponibile (per i romani) alla libreria Arion Montecitorio (si può comunque richiederlo direttamente alla casa editrice), ma anche perché in questi giorni mi capita di pensare spesso a quello che ho detto anche l’altra sera: non siamo guariti. Bersani sì, per fortuna. La malattia del Pd però è ancora lì. Anche perché non è stata curata.

Ecco dunque qui la mia postfazione che troverete anche nel libro. 
Ho totalmente rimosso l’invito di Antonio Martini a scrivere la postfazione di questo romanzo un minuto dopo averlo istintivamente, ed entusiasticamente, accettato, ricordando l’interesse con cui l’avevo letto in anteprima, su sua richiesta qualche mese fa. L’impegno preso mi è tornato in mente la sera dell’11 giugno 2015, poche ore prima della scadenza che Antonio mi aveva indicato, mentre guardavo su Raitre il film di Walter Veltroni su Enrico Berlinguer. Alla fine del film, naturalmente. Suggestioni, inconscio, irrazionalità. Perché il paragone non c’è, perché non c’entra. Perché io non appartengo nemmeno a quella storia, alla storia dei comunisti italiani, anche volendo immaginare una continuità.
Perché il vecchio segretario vero – lo scrivo subito, immaginando con che tipo di curiosità possa affrontare queste righe il lettore del romanzo di Antonio – è molto meno legato a questo passato del vecchio segretario del romanzo. Il suo dolore, il suo male, per quanto credo di aver capito, non è il dubbio, facendo il partito nuovo, di aver tradito quella storia: non ce l’ha, quel dubbio. E non è di non aver capito il dovere del rinnovamento: l’ha capito, quel dovere. E l’ha capito ben prima di essere stato forzato dai fatti, dai numeri, dagli eventi ad innovare. Il suo male, semmai, il suo dispiacere, se lo capisco bene, è di aver sperimentato le conseguenze di un eccesso di fiducia nel nuovo, di un eccesso di coraggio. Perché il nuovo, il più delle volte, non si è rivelato migliore del vecchio. Non è stato all’altezza della sfida. Non ha ripagato la fiducia. Una fiducia, e una sfida, che non guardavano a quello che era stato e su quello che era stato non si fondavano. Ma che guardavano al futuro, a una responsabilità da assumere, a una strada che qualcuno doveva indicare e su cui qualcun altro doveva camminare. Un cambiamento sconsiderato di riferimenti e di classe dirigente, una rottamazione vera, fatti e non retorica. Tradita, però: da chi aveva avuto il compito di esserne il protagonista.
Con l’occhio del vero romanziere, Antonio Martini coglie la valenza esistenziale, archetipica, di quello che è successo. Racconta quello che i giornali non potevano raccontare, che l’emotività di quei momenti nascondeva. Vede le ambiguità, le miserie umane, le contraddizioni del Traditore e della Giapponese, due opposti che però, non a caso, si attraggono. Vede il simbolo, il dramma, dietro una vicenda che per fortuna, e per la bravura dei medici, è stata molto meno drammatica di come avrebbe potuto. Martini non sa, eppure indovina, episodi, dettagli, momenti in cui i rapporti personali e la politica si sono mescolati, il privato e il pubblico si sono fusi. E dove non indovina inventa, e spesso coglie nel segno. Smaschera un rimorso collettivo e fondato, rimosso ben più profondamente della richiesta di scrivere questa postfazione. Un rimorso senza affrontare il quale non si andrà avanti, e non si guarirà. Perché non esiste una comunità che non fa i conti con la propria storia, che non guarda negli occhi la propria malattia.
Invece l’altra malattia, quella collettiva, non è stata riconosciuta. Nessuno ha chiamato il medico, nessuno l’ha chiamata per nome. Il male è stato curato con medicine bugiarde: “Prima di adesso avete perso sempre”. “Prima di adesso non avete mai fatto riforme”. “L’uomo solo al comando”. “Il primato della comunicazione”. “Sono diventato deputato a quarant’anni, una volta non sarebbe mai successo, ma io me lo merito”. Solo l’ultima è una citazione letterale del romanzo, ma potrebbe anche non esserlo, o potrebbero esserlo le altre. Il cambiamento sconsiderato è stato chiamato e descritto come conservazione e palude. E anche, probabilmente, viceversa.
La guarigione personale, per fortuna, è avvenuta. La guarigione collettiva no, e non poteva avvenire, come avviene ad ogni malattia non riconosciuta. Anzi, il male si è aggravato. E quasi fatalmente, altra situazione “da romanzo” e che forse solo in un romanzo si poteva raccontare, si è aggravato proprio nei giorni, nelle ore, della malattia. Un nuovo trauma, un’altra ferita nella comunità. Per questo, come i protagonisti del romanzo, tutti noi siamo qui a chiederci quando è cominciata, la malattia, e se poteva essere evitata. Se il male era in noi da prima e facevamo solo finta, di essere sani. Se ci siamo illusi. Se siamo stati talmente bravi a raccontarla (altro che incapaci di comunicare!) da convincere anche noi stessi.
Le risposte io non le so, ma so che questo romanzo aiuta a farsi domande più di tanti articoli di giornale (poi non ce ne sono stati neanche tanti, di articoli che cercassero di aiutare a capire, a dire il vero). E quindi è una lettura da consigliare a chiunque voglia ancora sforzarsi di capire, o anche solo di farsi domande sul senso di questa storia. Con fiducia però, e con un sorriso. Perché, come direbbe il vecchio segretario vero, e come dice anche quello finto, “sembrava la fine del mondo, ma sono ancora qua. Eh, già”.

3 Responses to Non siamo guariti. Un romanzo su Bersani e la malattia del Pd

  1. Ho letto con interesse il libro, e ringrazio Antonio Martini, della singolare occasione d’incontro, fortuita, in un rifugio di montanari DOC.
    Avendo vissuto le traversie pre PD, fra la Sicilia e Trento, ho forse un occhiale malinconico, gattopardesco, pirandelliano ed, a tratti, machiavellico.
    Il libro riflette lo stato di sospensione, preoccupata, che ricorda certe scene dei film di Nanni Moretti. Non mi riferisco a “D’Alema di qualcosa…”, neppure a “continuiamo così, facciamoci del male”, quanto ad una più recente inquietudine. Personalmente, sono andato a firmare dal notaio per la costituzione dell’APD, Associazione per il Partito Democratico, quando Lorenzo Dellai, caporione de la Margherita, si opponeva, in Trentino, con ogni mezzo necessario alla fusione dell’anima cattolica con quella post-comunista e tendeva a differire la creazione di un PD del Trentino già in fisiologico ritardo rispetto al PD nazionale. Da allora, ho cercato, da cittadino mazziniano, di partecipare alle primarie, ogni volta che s’è presentata l’opportunità di poter scegliere un candidato decente, o, almeno, presentabile, all’interno di una coalizione che non prevedesse un candidato unico, benedetto dai potentati delle correnti del PD, partito post democristiano, drammaticamente incline, nell’oggi, a divenire PD delle Libertà. Tutt’altra cosa rispetto ad un qualunque Partito della Nazione che non costringa, oggi, Mario Monti a richiamare, pubblicamente, il premier Matteo Renzi ai rischi cui le sue disinvolte pratiche inciuciste espongono il sistema paese, in Europa, alla vigilia del 15 aprile, ed alle dinamiche speculative globali, per cui, nell’oggi, la “r” moscia del Ministro Padoan ha lo stesso appeal del balbettio di Romano Prodi, dopo il Britannia Day. Sdoganare pratiche bipartisan, che consentano a candidati, divenuti impresentabili, di uno schieramento di trasferire i propri pacchetti di voti allo schieramento opposto è pratica consuetudinaria, dopo vent’anni di mercato libero, sui voti degli italiani all’estero e dei loro saltimbanchi paracadutati in Parlamento da oltre oceano, quando non accuratamente cooptati Oltretevere, come burattini e attori di destabilizzazione mercenaria.

  2. ciao Chiara
    scrivi “inizio del 2013” ma forse volevi dire “inizio del 2014”?

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