Rassegna Quirinale/16: epilogo

Sergio Mattarella è un uomo mite, determinato, colto, saggio e una persona di grande rigore e umanità. Sapere che è il nostro presidente della repubblica è pura felicità. Ultime cose da dire, su quanto abbiamo raccontato e letto, dopo qualche giorno di silenzio autoimposto e scaramantico. Sono parecchie, quindi le dirò rapidamente e con scarsa diplomazia.

1) Tra prima e seconda repubblica. Li hanno intervistati tutti, i campioni della prima repubblica, ma io non sono mica tanto d’accordo con questa narrazione di Mattarella come campione della prima repubblica. Nella prima repubblica Mattarella c’era e faceva il ministro, per carità, ma è della nascita della seconda repubblica che Mattarella diventa un protagonista.

Mi riferisco al suo ruolo fondamentale in due passaggi senza i quali la seconda repubblica non potrebbe neanche essere raccontata: la riforma elettorale maggioritaria (approvata con un consenso parlamentare amplissimo, grazie alla sua sovrumana capacità di mediazione), e la nascita del Partito popolare, senza il quale non ci sarebbe mai potuto essere l’Ulivo né ci sarebbe stata la leadership di Romano Prodi, che pure popolare non era. Solo chi ha un’idea antistorica di quei fatti, solo chi ne rimuove le radici culturali, solo chi ha un’idea impolitica, e alla fine antipolitica, dell’Ulivo può sottovalutare il ruolo di Sergio Mattarella in quei passaggi. Era lui il vero leader morale del gruppo di democristiani che si rifiutarono di seguire Buttiglione alla corte di Berlusconi e resistettero dormendo nei sacchi a pelo a piazza del Gesù riallacciando di giorno i cavi telefonici che gli venivano tagliati di notte. Se non ne divenne anche il segretario era solo perché capiva che per portare i democristiani a sinistra occorreva che ad assumerne la guida fossero i più moderati della pattuglia, prima addirittura il preambolista Gerardo Bianco e poi Franco Marini. Ma era Mattarella il capo del gruppo più numeroso ed egemone, era lui l’autorevole e riconosciuto discendente di Moro e di Zac. Nella seconda repubblica Mattarella è stato capogruppo, vicepresidente del Consiglio, ministro della Difesa. Non ha mai avuto ruoli di guida politica diretta né nella Margherita né nel Pd, ma del Partito democratico ha scritto il manifesto fondativo, insieme a gente come Scoppola e Reichlin. Non è un fantasma riemerso da un remoto passato.

2) La storia delle dimissioni da ministro. Viene ricordata come il tratto saliente della sua biografia, ma viene pessimamente raccontata con l’aneddotica da bar su “uno dei pochi democristiani capaci di dimettersi”. Banalità. Le dimissioni di Mattarella, Fracanzani, Mannino, Martinazzoli e Misasi segnarono allora, 26 luglio 1990, un passaggio fondamentale non perché cinque democristiani si dimisero, ma perché lo fecero a causa di un’intuizione. Lo ha spiegato bene Guido Bodrato a Renato Pezzini sul Messaggero di ieri:
“Per noi quella non era un’opposizione a Berlusconi, o a Craxi che era un sostenitore delle tv di Berlusconi. Per noi era un modo di cercare di arginare la degenerazione della politica che prendeva forma in quel periodo grazie anche a un utilizzo della propaganda attraverso i mass media e la televisione in particolare. Diciamo che siamo stati i primi a denunciare, con quel gesto clamoroso, i rischi di quello che negli anni successivi è stato definito il berlusconismo”.
Questo è il fatto. La sinistra democristiana aveva capito per prima, prima del resto della Dc e prima anche, spiace dirlo, della sinistra comunista (per non parlare dei socialisti) verso dove andava a finire la prima repubblica, e quale sarebbe stato l’avversario nella seconda. Aveva rivelato lucidità e strumenti culturali più adeguati a capire quale sarebbe stata l’attrezzatura necessaria per affrontare i “tempi nuovi”: non un’opposizione bigotta e reazionaria al pluralismo televisivo, ma una avversione rigorosa ai frutti di una nuova egemonia culturale e alle sue connessioni con il potere politico. Non sono io a dirlo, me l’ha detto (autocit.) un insospettabile come Aldo Tortorella nel mio libro Highlander (Memori, 2010):
“Berlusconi aveva rapporti strettissimi con i partiti, la Dc e il Psi, e con le loro correnti. Non con la sinistra democristiana, che è stata l’unica a capire (…). Tentò di mettersi a disposizione, come rivelò Natta, perfino del Pci (…). Naturalmente lui lavorava per se stesso, ma lavorava politicamente. Non aver capito questo ha portato a una grandissima sottovalutazione di Berlusconi. Si è creduto alla storia dell’imprenditore che si è fatto da solo. Come, da solo? Si è fatto attraverso la politica e usando le armi della politica. (…) In Berlusconi non c’è niente di impolitico, è la politica: una politica pessima, ma una politica. E persino dei valori”.
E Bodrato, poche pagine più avanti (op. cit.)
“Noi siamo stati accusati allora di essere partigiani del monopolio pubblico. (…) Ma siamo stati i più convinti difensori delle riforme della televisione pubblica, e ci siamo trovati abbastanza soli. Immaginavamo allora che la nostra critica alla legge Mammì avrebbe convinto alcuni dei nostri alleati. Ma quando ci sono state le dimissioni dei ministri, non è accaduto nulla: Andreotti ha potuto sostituirli in meno di ventiquattr’ore (…). Quella legislatura ha archiviato la battaglia parlamentare che si è poi rivelata la più importante degli ultimi vent’anni: perché da quella battaglia parlamentare, e da quella sconfitta, è dipesa la grande forza del berlusconismo”.

3) Il capolavoro. Bravi tutti, bravo Renzi, l’ho detto a molti a voce e anche con un tweet. Il colpo di scena me lo spiego così: il presidente del consiglio si era messo sulle spalle tutta la partita. Se avesse proposto un candidato “suo”, un suo preferito, che andava a fondo, sarebbe andato a fondo lui. E Renzi, a differenza dei giornalisti che pensano basti mettersi d’accordo con Berlusconi o con i capicorrente Pd, è un vero politico e sa benissimo che deve fare i conti con il parlamento: ecco, in questo parlamento, semplicemente, Sergio Mattarella, per tante ragioni che i giornali hanno spiegato bene, era il candidato che aveva più possibilità di non essere impallinato tra quelli che Renzi poteva accettare, cioè tra quelli che non avevano caratteristiche di protagonismo, impopolarità o peso politico intollerabili per lui. Mattarella era anche il candidato preferito da Bersani, lo era da due anni. Renzi è stato abbastanza intelligente da capire che questo non era il momento delle ripicche, ha fatto abilmente un punto di forza del fatto di aver accettato il nome preferito dal suo principale avversario interno e si è portato a casa tutto il piatto. Renzi è stato anche fortunato, perché il suo avversario interno è un galantuomo e un uomo leale che lo ha aiutato ad archiviare la pagina più nera del Pd, quella dei 101. Lo lasciamo dire a Marco Bracconi, che lo ha detto così.

4) Lezione per il Pd renziano. È stato un vero piacere sentire il segretario del Pd all’assemblea dei grandi elettori elencare i seguenti tre concetti:
– centralità e rispetto del parlamento
– autonomia del Pd prima di qualsiasi patto o alleanza
– valorizzazione del pluralismo interno e della continuità delle scelte compiute dalla comunità politica del Pd.
Se lo avesse fatto (se lo farà) più spesso, noi cosiddetti antirenziani saremmo molto meno antirenziani. E soprattutto, lui sarebbe molto più segretario.
I fatti di questi giorni dimostrano che in questa legislatura il Pd, se è unito, può fare tutto, miracoli compresi. Non ci sono santi, non c’è bisogno di fare patti né di lasciare l’ultima parola a nessuno se si sa tenere unito il Pd. Questi, a proposito della famosa “sconfitta” del 2013, sono i rapporti di forza, questa è la realtà.

5) Lezione per la minoranza Pd. La minoranza Pd non è riuscita a incidere grazie a un atteggiamento collaborativo con Renzi, ma è riuscita a incidere quando ha messo dei punti fermi, e quando ha fatto seguire qualche fatto – fatti parlamentari – alle parole. Io credo che l’elezione di Mattarella sia merito anche (molto) di Miguel Gotor e della pattuglia di circa venticinque senatori che ha tenuto il punto sull’Italicum e ha smascherato il patto del Nazareno, dimostrando che il “punto di forza” di Renzi fa molto presto a diventare una prigione. Io credo che Matteo Renzi abbia riflettuto, quando ha sentito Paolo Romani che parlava di nuova maggioranza. E anche quando ha visto che 140 parlamentari del Pd si riunivano per dire che il loro sostegno non si poteva dare per scontato. Penso che si sia chiesto se era pronto, da segretario del Pd, a rottamare definitivamente il Pd per fare un partito con Sacconi e con Alfano, perché eravamo al punto che questo stava per succedere. Penso che si sia risposto di no.
Corollario: lo dico per quelli sempre con un piede fuori. Rimanere nel Pd, in questo Pd, con tutti e due i piedi è stato giusto, utile, sacrosanto. Dal Pd non se ne va nessuno.

6) E comunque. E comunque Rino Formica l’aveva detto che sul Quirinale il patto del Nazareno saltava. Io ve l’avevo segnalato, proprio all’inizio, quando mi è venuta l’idea di questa piccola serie di articoli. Perché mo’ tutti a dire che l’avevano detto, e allora anch’io. Qua la zampa, amici. Viva l’Italia.

One Response to Rassegna Quirinale/16: epilogo

  1. E stata un’ottima e utile rassegna stampa,e adesso speriamo che non sia soltanto una parentesi ma una ripartenza.

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