Il Pd entra nel Pse? Guardate che siamo già oltre

A leggere i giornali di oggi, sembra che d’improvviso sia tornata d’attualità un’ancora irrisolta questione della collocazione europea del Pd. Il problema è stato invece ampiamente superato nel corso degli ultimi quattro anni. Ecco come abbiamo ricostruito tutti i passaggi della vicenda nel libro di Stefano Di Traglia e mio, “Giorni Bugiardi”, appena uscito per Editori Riuniti, in cui dedichiamo un paragrafo a quella che è stata la “politica estera” del Pd di Pierluigi Bersani.

(…) La prima questione, quella che appassiona di più i cronisti e gli osservatori della politica di casa nostra, è stata ovviamente quella della collocazione politica del Pd nello scenario internazionale. In occasione delle elezioni europee del 2009 (quando ancora era segretario Dario Franceschini) era stata presa, dopo lunghi anni di estenuanti dibattiti che a volte erano sembrati dover mettere a rischio la nascita stessa del partito, la fondamentale decisione riguardante la partecipazione degli europarlamentari del Pd al gruppo dei socialisti, che per l’occasione aveva aggiunto il nome “democratici”, con l’obiettivo di lavorare per convincere che la “diversità” del Pd, la sua originalità culturale e politica, potesse essere un valore aggiunto nel favorire la nascita di una nuova rete progressista a livello internazionale. Un obiettivo al quale [l’allora responsabile esteri] Lapo Pistelli in particolare aveva lavorato negli anni con grande impegno e convinzione.

Ma tra il 2009 e il 2013 il Pd è andato ben oltre questo passo di partenza: il 15 dicembre 2013, due settimane dopo la vittoria di Bersani alle primarie, si tiene per la prima volta, e proprio a Roma col Pd nelle vesti di padrone di casa, la riunione dei partiti di centrosinistra di tutto il mondo, sia socialisti che non socialisti, promotori della “Progressive Alliance”. «Bersani», spiega [l’attuale responsabile esteri del Pd] Giacomo Filibeck «ha sempre considerato il Pse come il nostro interlocutore naturale nella cornice europea, all’interno del quale però lavorare in sinergia con i partner più compatibili per dotarlo di una vera soggettività politica».

Da notare che fin dal primo congresso del Pse cui ha partecipato da segretario, nel 2009 a Praga, Bersani appoggia pienamente la decisione di costruire una candidatura comune, quella di Martin Schulz, che quattro anni dopo sarà ufficializzata da Guglielmo Epifani segretario, per la presidenza della Commissione europea in occasione delle prossime elezioni di maggio 2014. Avere una personalità in campo che, sulla base di un programma condiviso, possa promuovere una campagna elettorale veramente europea veniva fin da allora valutato da Bersani come il primo passo nelle direzione di politicizzare il dibattito europeo e contribuire al processo di formazione di una vera e propria opinione pubblica comunitaria.

Lavorare per l’Italia giusta non poteva del resto essere slegato dal tentativo di costruire le basi per un’Europa diversa. «Sin dalle prime occasioni di confronto con Sigmar Gabriel, segretario dell’Spd, e con Francois Hollande, candidato alla presidenza francese,» racconta Filibeck che, insieme a Pistelli, lo ha sempre accompagnato in quei colloqui «il segretario punta a far emergere una progettualità comunitaria tale da elevare il discorso oltre gli steccati delle difficoltà domestiche». Niente di più lontano da Bersani della trita retorica europeista, non solo per indole e non certo per mancanza di convinzione, ma perché aveva ben compreso le resistenze in casa socialista rispetto all’ipotesi federalista; il che non gli ha impedito di portare avanti il vessillo della maggiore integrazione europea, ma facendo leva sulla logica. «I suoi interlocutori», sorride Filibeck «trovavano molto efficace la citazione dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, usata per spiegare come la mancanza di vincoli solidali tra i paesi europei rischia di trascinare il progetto europeo sul fondale dei ripiegamenti nazionali e protezionistici». (…)

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