Pubblicare un articolo in cui si esprime e si motiva un’opinione sulle recenti vicende parlamentari, e in particolare sui reiterati voti in dissenso dal gruppo di alcuni eletti del Partito democratico. Nessun riferimento, nessuna offesa, nessuna accusa. Allegare la testimonianza di un anziano ex senatore, che con tono pacato mi raccontò anni fa, in tempi non sospetti, un paio di vicende che avevano riguardato la sua breve stagione da parlamentare.
Risultato: accuse di aver lanciato “minacce” e di aver scritto un pezzo “scandaloso”. Insulti e aggressioni varie genere “una come te non dovrebbe occuparsi di comunicazione ma fare la mondina”. Commenti in calce equamente suddivisi tra i seguenti due argomenti:
1) tu guadagni troppo e quindi non dovresti parlare;
2) tu dirigi la televisione del Pd e quindi non dovresti parlare.
Ora, premesso che con questo principio la maggior parte degli editorialisti dei quotidiani e delle firme più o meno note in Italia avrebbe molto meno diritto di scrivere di me, io il primo argomento paradossalmente lo accetto: se a qualcuno rode per via del mio (temporaneo) stipendio magari ha pure il diritto di farmelo sapere, anche se io non ci posso fare niente e non posso certo smettere di lavorare per non irritarlo. Il secondo però è curioso: l’idea cioè che la qualità richiesta a un giornalista sia quella di NON ESPRIMERE le proprie opinioni, piuttosto che quella di esprimerle e argomentarle. Del resto ne avevamo già parlato qui e successivamente qui.
Però una cosa non immaginavo, sul serio: che i difensori del diritto al dissenso provassero tanta violenta insofferenza (sì, esiste anche la violenza verbale) verso chi prova a dissentire da loro.