Non è a destra il posto dei cattolici (e alla Chiesa conviene il pluralismo)

La sensazione è che la chiesa pagherà: non per il silenzio di questi giorni, che sempre più insistentemente le viene rimproverato anche da pulpiti non titolatissimi, ma per la strategia di questo ventennio. Il lungo crollo del berlusconismo lascia veleni e macerie dai quali nessuno sarà risparmiato; e più sarà lungo, quel crollo, e più farà danni. Si logora l’opposizione, che proprio per aver visto e denunciato da anni – con accenti diversi e differenti ragioni – gli errori e le vergogne del sistema imperante, ora rischia paradossalmente, invece di raccogliere i frutti, di apparire una cassandra impotente e lagnosa. Si logora l’establishment economico, intellettuale, giornalistico che in questi anni non s’è guadagnato i titoli per dire adesso ciò che ha troppo a lungo taciuto. Si logora il senso civico e l’amor proprio degli italiani, perché alla fine puoi dare la colpa all’establishment e alla sinistra, ma devi ammettere che Berlusconi al potere ce l’abbiamo mandato, e così a lungo conservato, noi cittadini con il nostro voto, nella crescente incredulità del mondo.

Da questo dramma nazionale, la chiesa italiana non deve illudersi di essere risparmiata. La sua funzione di riserva morale è messa in discussione non tanto da chi oggi la strattona per ottenere una sconfessione del presidente del consiglio, magari dopo averla tante volte accusata d’ingerirsi indebitamente nella politica italiana. Il problema non è ottenere una pubblica condanna dei comportamenti privati di Berlusconi, ma avere il coraggio di dare un giudizio sulla società italiana dopo il ventennio berlusconiano, e dopo il credito che la chiesa ha sovente concesso alla destra italiana fidandosi della sua maggiore affidabilità per “difendere i valori”. Quello sulla moralità pubblica di questo paese, non quello sui comportamenti privati di un politico, è il giudizio che la chiesa esita a dare, nonostante le parole ferme pronunciate fin dal gennaio scorso dal cardinale Bagnasco, quando parlò della “desertificazione valoriale che ha prosciugato l’aria e rarefatto il respiro” e l’eloquente riferimento, nel saluto che ieri il papa ha inviato a Napolitano, all’auspicio “di un sempre più intenso rinnovamento etico per il bene della diletta Italia”. Un’esitazione che nasce da un fatto e da un imbarazzo: il fatto è che quel giudizio sull’Italia richiede alla chiesa italiana anche un giudizio su se stessa, le sue scelte, la sua reale forza culturale in questo paese; l’imbarazzo è che la chiesa non ha deciso in che direzione desidera che questa stagione si chiuda. Il “se” è assodato, manca il “come”; il “verso dove”.

C’è un’ipotesi forte, se non altro perché trova voce e posto d’onore sulle colonne del Corriere della sera, in singolare (o forse no) sintonia con l’ultima svolta del terzismo, il frontismo del terzo millennio: dopo Berlusconi mai la sinistra, dopo di lui chiunque ma non il Pd. Perfettamente funzionali al disegno, ecco gli auspici di Ernesto Galli della Loggia per la nascita di un nuovo centrodestra come partito cattolico, guidato magari da un nuovo Gedda che organizzi le truppe in difesa dei valori. La prospettiva egemonica potrebbe apparire allettante, ma sarebbe miope da parte della chiesa agevolarla. Lo dicono i numeri, perché almeno un terzo dei cattolici italiani vota serenamente per il Pd e per il centrosinistra e non sentirà il bisogno di ricollocarsi solo perché a destra cambieranno le cose; ma lo dice anche e soprattutto la storia del nostro paese, quella vocazione nazionale e costituzionale del cattolicesimo italiano che proprio monsignor Bagnasco ha così spesso rivendicato, in sintonia con Giorgio Napolitano, nel centocinquantesimo anno dell’Italia. Un partito cattolico sarebbe un passo indietro per l’Italia e anche per la chiesa. Ridurrebbe appunto il cattolicesimo a “parte”, ne diminuirebbe l’autorevolezza e il ruolo, senza contare che spingerebbe fatalmente il centrosinistra verso un “modello Zapatero” e l’Italia verso un bipolarismo etico assai poco desiderabile.

Né d’altra parte la soluzione può essere quella di un ritorno spiritualista o un rifugio nel prepolitico, che forse placherebbero qualche istinto laicista ma non renderebbero giustizia alle ambizioni culturali e agli stessi imperativi etici dei cattolici. Se non può diventare una parte, tantomeno la chiesa può ridursi a una lobby, che si limita a qualche rivendicazione settoriale di carattere pratico o ideale e per il resto rinuncia a essere protagonista nel dibattito pubblico. Una via irrealistica e perfino impossibile, dopo Wojtyla, che metterebbe l’Italia fuori da un fenomeno globale che riguarda tutte le religioni, nemmeno solo quella cristiana.

Insomma – ma non è poco – non resta che il Concilio. Dopo Berlusconi, la chiesa non può che scegliere la via della libertà dei figli di Dio e della fiducia nello Spirito. Vivere il pluralismo delle scelte politiche dei laici cristiani come una ricchezza e non come un limite, secondo il dettato della Gaudium et spes, salvaguardando la propria capacità di essere madre e maestra di tutti i cristiani, e il suo titolo a considerarsi risorsa morale per tutta la comunità degli uomini. Auspicare, come Benedetto XVI ripete ormai da anni, il sorgere di una nuova generazione di cattolici impegnati in politica significa anche questo: avere fiducia nei laici, non avere paura della loro libera assunzione di responsabilità. Non è irreggimentando i cattolici che fanno politica che la Chiesa acquista peso, ma consentendo loro di misurarsi nell’agorà, senza compromettere la loro unità spirituale né il proprio ruolo universale. Fuori da questa strada c’è da temere ci sia solo quella di presidiare uno spazio sempre più piccolo, o di lasciarsi strumentalizzare da un ossequio fin troppo chiaramente interessato.

 l’Unità 23 settembre 2011

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