La Cei prima del ruinismo

C’è chi ai suoi tempi vestiva alla marinara, chi la sera andava in via Veneto, e c’è anche chi leggeva La Chiesa italiana e le prospettive del paese. Quella piccola citazione nella prolusione di monsignor Bagnasco (intervento di apertura dei lavori dell’assemblea permanente della Cei, pronunciato qualche giorno prima), il famoso discorso sull’«Italia che guarda sgomenta», ha fatto drizzare parecchie antenne. E non solo per la nettezza della frase prescelta, praticamente una sentenza sulla società contemporanea, e una sentenza con un preciso colpevole: «Il consumismo ha fiaccato tutti».

Ma proprio per la fonte della citazione. Anche a essere troppo giovani per ricordarsi di quando, al momento della sua pubblicazione nell’ottobre del 1981, quella decina di pagine redatte della Conferenza episcopale ebbero, come dice il presidente della Cei di oggi, «una notevole accoglienza» (e incuriosirsi parecchio su cosa ci sia dietro quell’aggettivo, «notevole»), in diversi si ricordano perfettamente di come, negli anni ’90, quel documento circolasse in forma semiclandestina in alcuni settori precisi del Popolo di Dio. Di come fosse diventato impossibile non dico trovarlo citato in un discorso del capo dei vescovi italiani, ma perfino acquistarne una copia nelle librerie cattoliche. Di come chi aveva l’originale in casa lo prestasse con mille cautele a chi lo chiedeva per fotocopiare, di come lo si leggesse e discutesse in certe interminabili riunioni dopocena, con la competenza e il tono sommesso di veri esegeti carbonari. Così che, molti anni e molta tecnologia dopo, scrivere su Facebook «scusate ragazzi, qualcuno di voi ha ancora una copia di La Chiesa italiana e le prospettive del paese che Bagnasco l’ha citato e m’è venuta voglia di rileggerlo?», provoca in pochi minuti una valanga di commenti e messaggi privati di vecchi amici, gente che dice «io ne ho due», che si offre di andare a cercarlo in cantina, che si impegna in ardite ricerche a casa dei genitori.

Che ti manda un prezioso link. Che cosa aveva di speciale quel piccolo documento? Certo, quel programma politico ed esistenziale nel primo paragrafo: “Ripartire dagli ultimi”. «Gli impegni prioritari sono quelli che riguardano la gente tuttora priva dell’essenziale: la salute, la casa, il lavoro, il salario familiare, l’accesso alla cultura, la partecipazione». E sicuramente la folgorante analisi di ciò che avrebbe dovuto essere e non è stato in quell’altra frase non dimenticabile, «l’Italia non crescerà se non insieme», che dava l’allarme sulla disgregazione che incombeva sulla politica e sul paese, e indicava una strada contraria a quella che poi fu seguita, e insieme il rischio puntualmente avveratosi che le agenzie formative e di comunicazione degenerassero in «strumenti di manipolazione, di destabilizzazione e conflitto, di incomunicabilità, perfino di disprezzo della realtà popolare, come nel caso della diffusione della pornografia e della provocazione all’intolleranza e alla violenza». C’erano passaggi come quello sul dovere dei cristiani di difendere la dignità del lavoro e i principi come «il primato dell’uomo sul lavoro; il primato del lavoro sul capitale e sui mezzi di produzione; il primato della destinazione universale dei beni sulla proprietà privata», e non sono parole scritte ora — nel tempo della crisi e delle disillusioni — ma all’inizio del decennio da bere, e chissà se i ministri cattolicissimi Sacconi o Tremonti le leggessero come potrebbero reagire. C’era un’analisi non consolatoria e lontana da illusioni di egemonia sul «divorzio tra la fede cristiana e la realtà culturale».
Ma c’era soprattutto — ed è probabilmente la ragione della strana vicenda di quel piccolo documento — una clamorosa, totale, entusiastica scommessa sul ruolo dei laici e sulla loro autonomia nell’agire politico e sociale. Prosperavano ancora i partitoni della prima repubblica, ma i vescovi scrivevano che i limiti e il logoramento della stagione dell’unità politica dei cattolici cominciavano ad avvertirsi «più acutamente» che in passato. E serenamente osservavano, in sintonia con il Concilio: «Noi sappiamo bene che non necessariamente dall’unica fede i cristiani debbono derivare identici programmi e operare identiche scelte politi *** che: la loro presenza nelle istituzioni potrebbe legittimamente esprimersi in forme pluralistiche». Tuttavia, ammonivano: «Non tutti i programmi e non tutte le scelte sono indifferenti per la fede cristiana. Alcune di esse sono chiaramente incompatibili o per la loro matrice culturale o per le finalità e i contenuti che perseguono o per i metodi di azione che propongono, soprattutto in relazione ai grandi valori, quali: la vita umana, le libertà democratiche, i diritti e i doveri dell’uomo, il pluralismo sociale e istituzionale nel quadro del bene comune, il lavoro, la giustizia sociale e la solidarietà, l’ordine mondiale fondato sul rispetto dei popoli, la pace e lo sviluppo». Insomma la difesa della vita sì certo, ma anche molto altro. E comunque nel documento si affermava la netta distinzione «tra la Chiesa come comunità e i cristiani come cittadini per quanto riguarda la presenza nelle realtà sociali» e il dovere della Chiesa di «mai confondersi con la realtà politica» e quello dei laici cristiani «nella chiarezza delle posizioni di mediare, sostenere il confronto e il dialogo, arrivare a scelte politiche ispirate a sana solidarietà e al bene comune». Ecco cosa è tornato in mente, a chi ha orecchie allenate, nell’ascoltare lunedì il discorso di monsignor Bagnasco e la sua impietosa analisi di quanto negli anni ’80 è cominciato, fino a quella agghiacciante descrizione di questo tempo in cui «la desertificazione valoriale ha prosciugato l’aria e rarefatto il respiro».
Ecco perché davvero, come ha scritto su Europa Massimo Faggioli, sull’epilogo del berlusconismo si dovrà riflettere molto, e dovrà riflettere anche la Chiesa italiana. Su se stessa, su come ha accompagnato l’Italia sulla strada che pure tra i primi aveva intuito. Su quanto ha seguito i percorsi da essa stessa indicati. Sul suo rapporto col realismo e con la profezia. Insomma sì, servirà un giudizio sul ruinismo, e sugli anni in cui certi documenti non si leggevano e non si citavano più. (Ma alcuni avevano le fotocopie).
Per Europa – 27 gennaio 2011

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