La retorica della memoria è un tratto tipico della cultura di
sinistra, ma suona spesso fasulla. Ed è (quasi sempre) molto noiosa. I
due difetti sono legati da una stretta relazione di causa ed effetto,
ovviamente. Fateci caso: quanto più, a parole, un politico indulge
nella retorica della memoria (e nel suo inevitabile corollario sui
“valori” di cui la Storia, con la maiuscola, darebbe altissimi
esempi), con quanta più enfasi esorta le nuove generazioni a trarre
ispirazione e insegnamento dal passato, sempre con il tono e con gli
argomenti di una brava maestra che porti la sua scolaresca a visitare
un museo, tanto più si può scommettere che proprio lui, non appena ne
avesse la disponibilità, si rivelerebbe il più accanito persecutore di
ogni uso, costume e simbolo tradizionale della sua comunità. La
pretesa di imbalsamare la storia in una natura morta di valori
immutabili, in una galleria di statue di gesso da visitare in
silenziosa e riverente ammirazione, non per caso va di pari passo con
la retorica, solo apparentemente opposta, dei grandi cambiamenti, del
nuovo che avanza e delle vecchie idee ormai del tutto inservibili per
comprendere il mondo di oggi. Se ne potrebbe ricavare una legge
matematica: dato un certo numero di occorrenze, nei discorsi ufficiali
di un leader politico, delle parole “memoria” e “valori”, si può
disegnare con ragionevole approssimazione la curva esponenziale della
furia iconoclasta che presto o tardi finirà per abbattersi sul suo
partito. Continua a leggere
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