Prefazione
di Pier Luigi Bersani
Se si va dai “vecchi” è sempre per cercare un senso da dare alle cose, perché abbiamo nella testa qualcosa da sistemare, per trovare un punto di vista da cui guardare in avanti. Bisogna dire che quel senso, nelle interviste di questo libro, si trova. Dei colloqui con gli Highlander la cosa che più colpisce è la freschezza di pensiero che raccontano. E io credo che questa freschezza derivi dal fatto che la fase decisiva della vita, per tutti loro, è coincisa con la gioventù: è una “questione generazionale” fatale e drammatica quella che li accomuna, perché a volte capita che sia la storia a decidere la vita degli uomini. Questa generazione, quella degli Highlander, ha avuto una maturazione molto rapida, ha dovuto compiere scelte tanto precoci quanto drammatiche. E perciò in qualche modo è rimasta giovane com’era allora per sempre.
In realtà, io credo, la vecchiaia non esiste. Dico nel senso che la vita di un uomo non è un oltrepassare a rotta di collo fasi diverse, ma è come una matrioska che via via diventa più grande continuando a contenere la persona che è stata prima. Dentro di me ci sono io a sedici anni, io a vent’anni, io a trenta: è questo il dramma. Non solo so bene com’ero a sedici anni ma in qualche modo, dentro di me, io sono ancora un sedicenne, sono anche un sedicenne. Non vi pare che sia così leggendo queste conversazioni?
Per gli Highlander avere vent’anni è stato drammatico, ma è allora che la storia è passata, li ha chiamati, ha deciso che dovevano scegliere. Oggi, forse, per paradosso, le cose sono più complicate. Al di là di un dibattito spesso superficiale e sciocco, è vero che noi non riusciamo ad avere più in nessun campo quella precocità di azione e di impegno: non parlo affatto soltanto della politica, ma di ogni campo della vita. E se è vero che si vive sempre più a lungo, è vero anche che il meglio di sé si dà in un’età in cui spesso oggi va sprecato. Le nostre società dilapidano le energie più preziose, quelle dei giovani. È un problema. Per l’Italia è il problema.
Le interviste di questo libro sono state realizzate in un tornante della vita del Partito democratico che ora forse possiamo cominciare a considerare alle nostre spalle. Queste riflessioni hanno rappresentato per tutti noi un elemento di spinta e di fiducia. Ci hanno richiamato alla nostra responsabilità nazionale e costituzionale e anche all’esigenza di darci una forma collettiva ordinata, di dare alla politica uno strumento che funzioni. È qui che tocca a noi, alla nostra generazione: questo è il testimone che raccogliamo e che a nostra volta lasceremo. Il nostro compito è costruire un partito che possa essere utile al paese, che sappia interpretare lo spirito della costituzione nella situazione attuale della nostra democrazia, che dimostri che il futuro è agganciato alle cose migliori che abbiamo alle nostre spalle. È la nostra sfida nazionale, costituzionale, democratica.
Comunque la pensino, colpisce in questi colloqui come nessuno degli Highlander abbia ritenuto inaspettato l’incontro tra le culture che hanno dato vita al Partito democratico. C’è in loro come un antico allenamento al dialogo, a un dialogo che non è mai venuto meno negli anni della politica dei blocchi contrapposti; e il messaggio degli Highlander è che il rischio non è nell’incontro tra le loro diverse culture ma nella loro evaporazione, nel loro annacquamento e nella loro dispersione.
E infine le parole raccolte in questo libro ci mettono in allarme riguardo al rischio di una deformazione e di uno svilimento dei meccanismi democratici e di una deriva populistica della nostra democrazia. Va detto che questo è un dato non solo italiano ma mondiale, anche se il problema si manifesta in diverse parti del mondo con livelli diversi di gravità. La democrazia rappresentativa fa sempre più fatica a mostrarsi efficiente perché si è creato uno scarto tra i problemi e la possibilità di risolverli, che innesca una ricerca confusa – e a volte rabbiosa – di ogni tipo di scorciatoia: in chiave personalistica, difensiva, o come rifugio in sogni tecnocratici.
Dai tempi di cui ci parlano gli Highlander a oggi ciò che è cambiato è questo: che non c’è più corrispondenza tra il perimetro dei problemi e il perimetro nel quale siamo in grado di operare per risolverli. Qui si apre un campo di ricostruzione democratica, e qui c’è il nostro compito di costruire strumenti democratici in grado di affrontare e risolvere i problemi. Senza un “governo democratico del mondo” capace di dominare i fatti globali, la democrazia che maneggiamo sarà sempre sotto stress; e anche per noi restituire legittimità alla democrazia significa imparentarci di più con il modo in cui si muove il mondo.
Parlo dei rapporti sociali, sindacali, di lavoro; della debolezza dei meccanismi di partecipazione dei lavoratori; del tema fiscale. Noi non possiamo disgiungere la questione democratica dal tema di come un cittadino si sente rappresentato nelle istituzioni, nei mercati, sul piano fiscale. Per questo per noi oggi avere ancora fiducia nella democrazia rappresentativa non può voler dire soltanto difendere la democrazia e i suoi meccanismi, ma deve significare anche saper affrontare e risolvere questi problemi. Se ci chiamiamo Partito democratico non è perché abbiamo scelto la parola meno controversa, è perché abbiamo accettato la sfida più vera e più grande.