Se per sbaglio al congresso del Pd si parlasse di politica

Nessuno sa veramente cosa dirà tra qualche ora Matteo Renzi, ma è probabile che la direzione di oggi apra per il Pd il percorso del congresso. Se così sarà, due narrazioni sembrano prepararsi per accompagnare la lunga procedura di rinnovo della leadership democratica: da un lato quella classica della “Babele”, di un partito litigioso e sfarinato dall’eterno scontro correntizio, e dall’altro quella della “vendetta”, della “resa dei conti” che prepari il ritorno di un Matteo Renzi rilegittimato dal “suo” popolo: “Ci divertiremo”, filtrano già le gazzette più informate sul Palazzo, rendendo il tipico approccio tra irridente e minaccioso al quale ci ha abituati la leadership uscente. “E chi perde rispetti chi ha vinto”, come se in un partito non fosse altrettanto necessario, se non più importante, anche il contrario.

Tuttavia, se è vero come osservano in molti che comunque il congresso del Pd sancirà la fine – già decretata dal referendum di dicembre – della stagione “personale” della leadership di quel partito, e che anche un Renzi eventualmente vincitore non potrebbe mai essere un leader dello stesso tipo di quello che abbiamo conosciuto, vale la pena sforzarsi di capire e raccontare il congresso del Pd con categorie politiche diverse da quelle della personalizzazione. Cambiando prospettiva, depurando lo sguardo dalle tossine degli ultimi anni e dalle pigrizie retoriche, tutto diventa perfino più chiaro: perché alla fine è sempre la politica che spiega la politica.

E di politica, nel dibattito del Pd, ce ne sarà da vendere. Per il partito nato dieci anni fa – troppo in fretta e troppo tardi al tempo stesso – dall’esperienza dell’Ulivo si impongono scelte decisive; ma soprattutto una. Il grande rimosso che ci ha regalato l’Italicum – una legge non solo incostituzionale ma, come lo stesso Renzi aveva tardivamente capito prima della sentenza della Corte, politicamente sbagliata – è la fine del bipolarismo. Nel 2013 il Pd non aveva “sbagliato un rigore a porta vuota”, ma aveva drammaticamente incrociato un nuovo fenomeno destinato a manifestarsi in tutto l’Occidente: centrodestra e centrosinistra tradizionali non sono più le due proposte che possono convogliare il consenso di tutto l’elettorato verso due proposte alternative di governo, e il terzo (o i terzi) litiganti rischiano di goderne a scapito dei primi.

Come si combatte in questo nuovo tipo di guerra? Nel Pd le strategie ci sono, e fondamentalmente sono due. O si torna bersanianamente all’Ulivo, a un Ulivo “4.0” che superi le ricette anni ’90 ma abbia l’obiettivo di riunificare un campo di centrosinistra, politico ma anche civico, ispirato ai valori costituzionali, che il renzismo e il referendum hanno frantumato; oppure, franceschinianamente, si punta all’alleanza degli europeisti e dei responsabili che faccia argine contro il populismo arrembante. Sono due ipotesi entrambe fondate e legittime sulle quali merita aprire un profondo dibattito congressuale (si ricorda per inciso che il congresso del Pd non è, da statuto, una giornata di gazebo ma un lungo percorso che dura diversi mesi). Ognuna delle due ha una logica e qualche punto debole, soprattutto uno, non da poco, in comune: che sulla carta nessuna delle due basta a garantire la vittoria. Ma non c’è dubbio che da questa scelta di fondo dipenda tutto il resto: quanto tempo serve per prepararsi alle elezioni, che tipo di proposta di legge elettorale, e ovviamente quale leader possa incarnare al meglio la fase nuova.

È sorprendente quanto Renzi da questo dibattito resti fuori. Il segretario, ormai da due mesi, sembra capace soltanto di gestire la partita a colpi di “silenzi” e “mosse” che dovrebbero portare, non si capisce come, a un suo rapido rientro sulla scena. E mentre il partito tende a riorientarsi sull’asse di queste due strategie per il futuro, Renzi ne perde progressivamente il controllo. La sua “vocazione maggioritaria”, l’ambizione di tornare a vincere parlando a un “popolo del 40 per cento” che dovrebbe regalare prima una trionfale conferma al segretario sui suoi avversari interni e poi il premio di maggioranza al Pd solitario della stagione renziana appare ogni giorno più velleitaria. E chi tra i suoi gli consiglia anche in queste ore di tornare a essere “il vecchio Renzi” non lo aiuta a uscire fuori da un’illusione impolitica.

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