È Gentiloni l’unica speranza

Ho scritto questo per i giornali locali del gruppo l’Espresso (Il Tirreno, La Gazzetta di Mantova, Libertà, Il Mattino di Padova, Il Piccolo, La Gazzetta di Reggio, La Gazzetta di Modena, Il Messaggero Veneto, La Nuova Sardegna, La Nuova Venezia e altri).

Mezzogiorno e ceti medi impoveriti: nella sua dichiarazione programmatica – asciutta ma ambiziosa, non certo le parole del capo di un governo “elettorale” ma quelle di un premier con un solido mandato del Quirinale – è stato soprattutto su queste due priorità che il presidente Paolo Gentiloni ha dato motivo di sperare che il disagio sociale espressosi domenica con la bocciatura della riforma Boschi possa trovare ascolto nel nuovo esecutivo e garantire la necessaria discontinuità rispetto a una stagione politica sonoramente bocciata dalle urne. Complessivamente, un po’ poco, a fronte di tanti messaggi contrari, a volte goffamente e inspiegabilmente contrari, trasmessi in queste prime ore: la nascita del nuovo governo è stata una specie di monumento all’autoreferenzialità. Premier a parte, avrebbe potuto essere la squadra post vittoria del Sì, è stato osservato: ed è vero.

Due ministeri in più – e per far posto ai due esponenti del Giglio magico con più responsabilità nel varo della riforma bocciata (Boschi, che subentra a Claudio De Vincenti spostato appunto al Mezzogiorno) e nella fallimentare campagna referendaria (Lotti, promosso da sottosegretario a ministro ma con le stesse deleghe chiave di prima). Meno donne. Qualche trasformismo premiato e un unico capro espiatorio, Stefania Giannini. Zero rappresentanza nell’area del No, intendendo per No non necessariamente (per carità) la minoranza Pd ma tutta l’area civica, associativa, accademica alla quale il Pd dell’ordalia referendaria ha voltato le spalle. E quella promozione agli esteri di Angelino Alfano che più di tutte denota una macroscopica incapacità di guardarsi da fuori, con gli occhi dei cittadini. Alfano è al governo ininterrottamente dal 2008, con la destra e con la sinistra, è stato più che sfiorato dal pasticcio diplomatico col Kazakistan ai tempi del caso Shalabayeva, rappresenta un partito praticamente privo di voti, è fortemente a disagio con l’inglese e non si è mai occupato di relazioni internazionali. Insomma, l’immagine di una politica sorda e arroccata. Altro che rottamazione.

Anche il profilo di Gentiloni, va detto, stride con la narrazione dell’epopea della generazione Leopolda. Renzianissimo, per carità, il nuovo premier è tuttavia inequivocabilmente uno “di quelli di prima”: ha compiuto da un po’ i sessant’anni, è deputato da diverse legislature, è stato ministro dei governi di centrosinistra che fin qui nei discorsi di Renzi venivano liquidati come fallimentari al pari dei quelli di Berlusconi. Ha nel curriculum, come tutti alla sua età, battaglie vinte e battaglie perse. E soprattutto è tanto urbano, felpato e sottotraccia quanto il suo predecessore è debordante, dirompente e spesso insolente. Sarà probabilmente in questo tratto umano del premier la principale discontinuità del governo Gentiloni dal precedente. Il nuovo premier, se non sarà solo una meteora destinata a durare pochi mesi, potrà svelenire un clima politico irrespirabile, da lui stesso stigmatizzato ieri alla camera, anche perché Gentiloni si terrà il più lontano possibile dalle asprezze politiche e congressuali destinate ad attraversare soprattutto il suo partito. Questa libertà dal doppio ruolo di segretario e premier (che è ancora, ed è un po’ grottesco, rigidamente previsto dallo statuto del Pd) è un’opportunità per il nuovo presidente.

Che, se sarà favorito dall’istinto di conservazione dei gruppi parlamentari – soprattutto di quelli del Pd, oggi di dimensioni praticamente irripetibili – non sembra destinato a essere molto aiutato proprio dal suo partito e in particolare dai renziani. L’ex premier, è chiaro, trascinerà il Pd in una paradossale battaglia “per riprendersi la poltrona” (proprio quello di cui fino a ieri accusava gli avversari), giocando tutto in nome della possibilità di avere al più presto la rivincita alle urne. Prospettiva tutt’altro che scontata, a meno di non credere alla storia del 40 per cento “tutto renziano” del Sì – e comunque non è scontato che a questo congresso il Pd sopravviva. Sarà bene che i suoi principali leader e fondatori, da dentro e da fuori il governo Gentiloni, questo punto lo abbiano chiaro, più di quanto hanno dimostrato di averlo finora.

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