Nemmeno Matteo Renzi può tutto: nonostante la riuscita operazione mediatica sulle tasse, il tema delle difficoltà del Pd sul “territorio” e dello stato di tensione che quasi ovunque attraversa il partito non si riesce a far sparire dai giornali. Un po’ forse è anche per ingenuità dei dirigenti Pd, che continuando ad alludere a “strette regolamentari” anti dissenso in realtà non fanno che enfatizzare il problema. Ma forse non si tratta di ingenuità, come vedremo.
Sostiene per esempio Andrea Sarubbi in questo bel pezzo per i giornali locali del gruppo l’Espresso che il problema sarebbe nell’assenza di Matteo Renzi: insomma i problemi non si risolvono perché il segretario premier è, inevitabilmente, a mezzo servizio. Ha “la testa altrove”, Renzi, e queste sono le conseguenze. Il che offrirebbe lo spunto per una bella riflessione sul doppio incarico, che il Pd prevede per statuto (oddio, anche su questo avrei da ridire ma magari un’altra volta ci faccio un altro post), e che quindi allo stato non è un fatto contingente ma strutturale, e in quanto tale complicato da risolvere con una semplice richiesta di più impegno. E tuttavia io non credo che Andrea, che descrive così bene il problema, centri l’analisi. La mia è che i guai del Pd non derivino dall’assenza di Renzi, bensì al contrario dal renzismo.
Faccio un esempio, apparentemente anomalo: a fronte di tanti sindaci e amministratori che Renzi non riesce a far dimettere (lasciando un attimo da parte la questione del perché vuole farli dimettere), sui giornali di oggi c’è il caso di una sindaca renzianissima, quella di Sesto Fiorentino, costretta a lasciare dopo essere stata sfiduciata in consiglio comunale. Cosa ci insegna questa storia? Innanzitutto che, appunto, un sindaco lascia quando non ha più i numeri per fare il sindaco: non per una battuta di Renzi a Porta a porta, non per un’intervista della Serracchiani: perché non ha più i numeri. Secondo, la storia di Sesto ci insegna che se chi governa non ha i numeri su una questione politica strategica (l’inceneritore, l’ampliamento dell’aeroporto o magari la riforma del senato) farà meglio a trovarseli, possibilmente nella sua maggioranza, perché minacciare, cacciare, strillare io sono stato eletto è un sistema che funziona fino a un certo punto. Si chiama costruzione del consenso, o se preferite: “politica”. Quella cosa che appunto ha consentito all’uomo di passare da “Wilma, dammi la clava” a una convivenza civile organizzata.
Il terzo insegnamento l’ho tratto dai resoconti su come ha reagito Sara Biagiotti, la sindaca in questione, in questa per lei sgradevolissima circostanza. Leggete qua, per esempio. Riassumendo, la renzianissima sindaca 1) paragona chi la critica ai fascisti; 2) a dispetto dell’evidenza dei fatti, cioè che i suoi critici hanno i numeri e l’hanno sfiduciata, risponde loro “io non mollo” (e mi autocensuro sul rapporto tra il punto 1 e il punto 2); ma soprattutto, 3) “è uscita dall’aula ogni volta ha preso la parola uno dei suoi oppositori, rientrando in aula per ascoltare invece gli interventi dei consiglieri in suo sostegno”. Testuale. Immaginatevi la scena, se preferite non a Sesto ma in qualsiasi parlamento o aula consiliare del mondo.
Ecco, mi sa che potrei anche fermarmi qui. Mi sembra che non serva nemmeno scriverlo, a questo punto, che quello che manca nella governance del Pd non è il rispetto della disciplina, ma la politica. Perché “la politica è persuasione”, diceva Ciriaco De Mita alle riunioni della Margherita che io seguivo come giornalista, e mi sembra di ricordare che a volte c’era anche Matteo: io però prendevo appunti.
Post scriptum. Sono già due o tre volte che leggo che per imporre la disciplina nel gruppo ci si richiama alle “regole scritte nel programma di Bersani” (in realtà nella Carta d’intenti della coalizione Italia bene comune). Mi permetto di osservare che, appunto, quelle regole facevano parte della piattaforma di una coalizione. Oggi non c’è più quella coalizione, non c’è più quel leader e soprattutto non c’è più la piattaforma. Possibile che l’unico vincolo che deve sopravvivere sia quello delle regole? Cioè, le regole di Italia bene comune dovrebbero vincolare me, deputato eletto sul programma di Italia bene comune, a votare riforme che in quel programma non ci sono, per fare le quali nessuno mi ha votato, proposte da un segretario premier che a sua volta non è stato eletto su quelle proposte e anzi proprio le inventa puntando tutto sull’effetto sorpresa, le illustra sommariamente suggerendo titoli ai giornali, non ascolta il dibattito da esse sollevato nel partito e non conclude la discussione rispondendo a critiche e richieste di chiarimento? Vabbè che non è politica. Ma questa, amici, non è neanche logica. Poi per carità, cacciateli pure tutti. Se ne avete la forza, però: e sennò vedrete che cacciano voi. Vi passo la clava eh.
Se non è un problema, posto pure qui quel che ho scritto sul blog di Sarubbi, perché l’argomento è il solito.
La mia teoria è che la famosa “rottamazione” sia stata niente più e niente meno che un McGuffin: ossia, un espediente per concentrare l’attenzione su un particolare assolutamente ininfluente rispetto alla trama generale. Se Renzi avesse detto, da subito, “aboliamo l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, il finanziamento pubblico ai partiti e la tassa sulla prima casa” probabilmente avrebbe desiderato cose anche giuste, ma sarebbe rimasto un Morando, ossia un leader di una corrente al 2%. Ha parlato di rottamazione e di rinnovamento e guarda te cosa è diventato.
Insomma, io penso che a Renzi di rinnovare il partito non gliene è mai importato più di tanto e continui a non importargli più di tanto.
Per lui il partito è un autobus per arrivare alla meta che si è prefisso: fuor di metafora, un comitato elettorale che, come tutti i comitati elettorali, serve a comunicare, a vincere, a compattare le truppe, non a far politica.
Ovviamente, quando parlo di rinnovamento non parlo di volti nuovi (quelli ci sono) né di modalità nuove di comunicare attraverso la politica (pure quelle ci sono). Parlo di rompere con vecchie pratiche di potere che tanto ci avevano fatto imbufalire con D’Alema & c. Abbiamo sostituito D’Alema & c. con tanti piccoli dalemini, questa è la realtà del renzismo. Con la differenza che se certe cose le avesse fatte D’Alema lo avremmo – io per primo e tanti renziani che conosco subito dietro – inseguito con il forcone.