Sulla direzione Pd, oggi ho scritto questo per i giornali locali del gruppo l’Espresso
Matteo Renzi non ha ceduto di un millimetro sull’Italicum, la minoranza Pd però non è “asfaltata”. Se è vero, come hanno scritto i giornali, che il segretario puntava – con l’improvvisa convocazione della direzione del Pd – a fotografare la spaccatura nel fronte dei suoi oppositori, a isolare i “seniores” (Bersani, D’Alema, Bindi) e gli “irriducibili” (Fassina, Cuperlo) incorporando il grosso degli ultimi quarantenni che ancora non si erano renzizzati, la missione del segretario non è riuscita. La direzione ha approvato, coi numeri larghi che Renzi si è guadagnato alle primarie, la blindatura e l’accelerazione sulla riforma; ma la minoranza Pd, dopo giorni durissimi in cui il grosso degli osservatori le aveva già cantato il requiem, ha trovato per una volta la forza di non dividersi e di insistere sulle modifiche che il segretario nega. I prossimi venti giorni, quelli che mancano all’arrivo in aula dell’Italicum il 27 aprile, apriranno a questo punto, comunque vada, una fase nuova, al momento non facile da immaginare.
Può aiutare, per una volta, invece di porsi la domanda su “cosa farà la minoranza Pd” provare a chiedersi: che cosa vuole Renzi? Vuole portare a casa al più presto la legge elettorale, non c’è dubbio, senza tornare al senato per modificarla. Più approfonditamente vuole una “democrazia decidente”, come ha detto, ed era chiaro che con quel decidente egli intende: decido io. Ci sarebbe molto da dire su questa concezione della democrazia per cui la politica è solo “decidere” e non conta più niente rappresentare, sulla sua compatibilità con quella che formalmente resta, e resterà anche dopo la riforma, una democrazia parlamentare. Ci sono però due questioni politiche più precise che il dibattito di ieri gli ha posto: dove vuole portare Renzi il suo partito e la legislatura?
Punto primo: gliel’ha posto Speranza. Renzi vuole spaccare il Pd? Perché questo succederà, abbiamo capito ieri, se l’Italicum non dovesse cambiare. Da questo punto di vista non è essenziale (anche se farà la differenza) sapere se e quanti deputati arriveranno fino in fondo sul no alla riforma e quanti si “convertiranno” strada facendo alla ragion di partito. Il punto è che il premier, che è anche segretario del Pd, in quel caso avrà deliberatamente scelto una via che divide il suo partito, che spingerà al margine alcune personalità molto amate e rappresentative della sinistra (Bersani?) e che provocherà probabilmente le dimissioni di un capogruppo (Speranza) e forse di altri, con tutte le conseguenze del caso. È questo che vuole Renzi? Davvero pensa di essere così forte da non dover subire alcuna conseguenza, anche elettorale, in uno scenario del genere? Questa domanda non è un “ricatto” ma una constatazione. Finché si tratta di “scalare” il partito, di vincere una battaglia politica, è un conto, ma qui la questione è un’altra. Il segretario del Pd, in nome della “vocazione maggioritaria” peraltro, vuole espellere la sinistra dal Pd? Renzi ieri ha detto di non voler regalare la parola “sinistra” a nessuno, suggerendo una riflessione nel Pd su cosa sia la sinistra oggi. Benissimo. Ma qualunque cosa sia, pensa di poter rappresentare la sinistra di governo da solo? Intende che il suo Pd non aspira più a essere la casa della sinistra, ma solo della sinistra renziana? Le parole di alcuni renziani che hanno risposto a Speranza che anche senza un pezzo di Pd “la base delle riforme è ampia, perché un pezzo di Fi le vota” suonano da questo punto di vista assai poco rassicuranti.
Secondo punto: la legislatura. Lo scenario è stato descritto da D’Attorre: dopo un’approvazione dell’Italicum che avvenisse in un clima di guerra nel Pd (oltre che con tutte le forze di opposizione e con la maggioranza di Forza Italia), cosa sarebbe delle riforme istituzionali al senato? La stagione delle riforme ne uscirebbe gravemente compromessa, e Renzi lo sa. Cosa significa dunque questa accelerazione sull’Italicum? È credibile, dopo una battaglia come quella che si annuncia, che con una legge elettorale appena approvata e il Vietnam su tutto il resto, resti deciso che la legislatura finirà nel 2018? Può anche essere una strategia, intendiamoci. Non è un dogma che questa legislatura debba durare cinque anni, anzi. Ma se il voto anticipato è diventato la strategia del presidente del consiglio, se viene prima anche dell’obiettivo di condurre in porto la riforma della costituzione, forse sarebbe bene saperlo.