(Questo post è stato scritto per Huffington post Italia)
Matteo Renzi ha detto più volte che il nuovo presidente della repubblica sarà eletto alla quarta votazione, la prima in cui il quorum richiesto scende da due terzi a metà dell’assemblea dei grandi elettori. Un modo per impegnarsi a fare (relativamente) presto, e anche un modo, si dice, per tenere sotto pressione i grandi elettori: come dire non fate scherzi, non puntate alla palude, perché se non ce la facciamo in pochi giorni mi arrabbio e andiamo a casa tutti.
Tuttavia questa impostazione metodologica non ha alcun senso logico, e stupisce che nessuno, nelle numerose interviste e conferenze stampa del premier, glie ne abbia ancora chiesto conto. Come ha ricordato qualche giorno fa sul Foglio Giuliano Cazzola evocando il precedente dell’elezione di Francesco Cossiga nel 1985 alla prima votazione, se davvero si vuole eleggere il presidente coi voti dell’opposizione politica non si può che puntare a eleggerlo nelle prime tre votazioni: semplicemente perché, dopo, i voti dell’opposizione non servono più. È dunque interesse innanzitutto di Silvio Berlusconi e del “Patto del Nazareno”, cioè anche di Renzi, che il presidente venga eletto con la maggioranza dei due terzi e quindi col necessario apporto di Forza Italia. È certamente questo l’obiettivo di Berlusconi (come di Alessandro Natta nell’85 e di Berlusconi stesso due anni fa), se vuole che i suoi voti siano determinanti.
Ma dovrebbe essere questo anche l’obiettivo del segretario del Pd e presidente del consiglio. Come ha ricordato Fabio Martini sulla Stampa infatti, Renzi può contare su un “pacchetto di voti record”, mai avuto a disposizione da nessuno dopo De Gasperi nel 1948, che lo rende perfettamente in grado di puntare a centrare l’obiettivo al primo colpo, senza aspettare l’abbassamento del quorum. Sommando alla maggioranza di governo (circa seicento grandi elettori) i centocinquanta circa di Forza Italia, colui che oggi è, oltre che segretario del Pd e presidente del consiglio, anche leader di una “maggioranza costituzionale” che nelle stesse ore in cui si elegge il nuovo capo dello stato sta procedendo a tappe forzate con la riforma del senato, del Titolo V della Costituzione e della legge elettorale può disporre di oltre 750 voti, che sono più dei due terzi dell’assemblea. La sua condizione, come ricorda Martini, è ben diversa da quella di Pierluigi Bersani che due anni fa agiva all’inizio della legislatura e senza una maggioranza né precostituita né potenziale.
Quindi Renzi, secondo quanto prescrive l’articolo 83 della Costituzione, non ha nessun motivo di puntare “al quarto voto”, e anzi ha tutto l’interesse a puntare al primo se non vuole rischiare che qualcuno, magari il Movimento cinque stelle, terza forza parlamentare, usi i primi scrutini per sparigliare i giochi mettendo in campo qualche strategia che punti a far vacillare il Pd e il patto del Nazareno. A meno che.
A meno che Renzi non punti in realtà, come dice, a coinvolgere tutti e a convincere un fronte il più ampio possibile per eleggere un vero arbitro e un vero garante, ma invece a trovarsi nella condizione, al quarto voto appunto, di poter adottare una sorta di politica dei due forni: cioè di poter eleggere il presidente con i voti del suo partito contro Berlusconi, oppure con i voti di Berlusconi contro un pezzo del suo partito.
Uno scenario, intendiamoci, legittimo. E tuttavia assai preoccupante, se è questa la strategia del garante della maggioranza che sta scrivendo la nuova costituzione, da un lato, e del segretario del Pd dall’altro.