A modo nostro – La nota introduttiva di Francesco Cundari per Highlander

La retorica della memoria è un tratto tipico della cultura di
sinistra, ma suona spesso fasulla. Ed è (quasi sempre) molto noiosa. I
due difetti sono legati da una stretta relazione di causa ed effetto,
ovviamente. Fateci caso: quanto più, a parole, un politico indulge
nella retorica della memoria (e nel suo inevitabile corollario sui
“valori” di cui la Storia, con la maiuscola, darebbe altissimi
esempi), con quanta più enfasi esorta le nuove generazioni a trarre
ispirazione e insegnamento dal passato, sempre con il tono e con gli
argomenti di una brava maestra che porti la sua scolaresca a visitare
un museo, tanto più si può scommettere che proprio lui, non appena ne
avesse la disponibilità, si rivelerebbe il più accanito persecutore di
ogni uso, costume e simbolo tradizionale della sua comunità. La
pretesa di imbalsamare la storia in una natura morta di valori
immutabili, in una galleria di statue di gesso da visitare in
silenziosa e riverente ammirazione, non per caso va di pari passo con
la retorica, solo apparentemente opposta, dei grandi cambiamenti, del
nuovo che avanza e delle vecchie idee ormai del tutto inservibili per
comprendere il mondo di oggi. Se ne potrebbe ricavare una legge
matematica: dato un certo numero di occorrenze, nei discorsi ufficiali
di un leader politico, delle parole “memoria” e “valori”, si può
disegnare con ragionevole approssimazione la curva esponenziale della
furia iconoclasta che presto o tardi finirà per abbattersi sul suo
partito.
In questo libro, raccolta di interviste ad alcuni dei “grandi vecchi”
della tradizione democratica italiana – quella che è alla base della
nostra Costituzione, per intenderci – si troveranno ben poche tracce
di una simile retorica. E non credo sia un caso.
Questo libro non è semplicemente la trascrizione di una trasmissione
televisiva. La sua forza, la ragione per cui si legge d’un fiato – per
cui l’ho letto d’un fiato persino io che pure avevo già visto tutte le
puntate della trasmissione – si deve a tante ragioni. Per prima cosa,
naturalmente, è merito degli intervistati. E per seconda di chi li ha
scelti, stanati (è il caso di dirlo) e sollecitati. E in buona parte,
credo, si deve anche alla scelta di lasciare al testo tutte le
imperfezioni, le ripetizioni, i salti logici tipici di una
conversazione, e tanto più di una conversazione che si svolga in casa
propria, sul filo dei ricordi, saltellando dai propri vecchi “cimeli”
ai propri “ideali” di gioventù – per citare il sottotitolo del libro –
e così attraversando, in quest’allegra scampagnata, sessant’anni di
storia repubblicana. Ma sempre – attenzione – per parlare di oggi. Non
per chiudersi in un museo dove farsi ammirare in silenzio, a maggior
gloria dei propri più o meno legittimi discendenti. Tutto il
contrario, semmai, e cioè per tornare a prendersi la parola, e se
necessario anche il gusto della polemica, sull’Italia e sulla sinistra
che ci sono, adesso. Non su quelle che erano, né su quelle che si
vorrebbero (o si sarebbero volute).
Potrei sbagliare, ma non mi pare che in alcuna di queste interviste si
trovi una sola volta la stanca rievocazione di amari risvegli,
speranze tradite e illusioni perdute, la solita lamentazione su quello
che poteva essere e non è stato. I grandi vecchi parlano molto (forse
anche troppo). E poi criticano, protestano, s’arrabbiano (forse anche
troppo poco). E, certo, possono pure lamentarsi, dei tempi nuovi e
magari anche dei discendenti che questi tempi hanno dato, a loro e al
paese. Ma non piagnucolano.
Come spiega Chiara Geloni nel presentare queste splendide
chiacchierate al lettore, l’idea da cui è nata la trasmissione era
semplice: volevamo fare “una trasmissione per i giovani, ma a modo
nostro”. E il senso dell’operazione – perché è ovvio che di operazione
si tratta, consapevole e dichiarata – il significato e lo scopo di
quel “modo nostro”, sia chiaro, sta davanti a noi, non alle nostre
spalle. In questo senso, Highlander non è un libro di memorie e
tantomeno un libro di storia. Piuttosto, è un instant book. Il suo
significato e il suo scopo, quel “confine da presidiare” di cui si
parla all’inizio, sta nel filo resistentissimo e scintillante che lega
ciascuna di queste interviste. Perché qui, attenzione, le interviste
si parlano. Anche per questo il libro è più della loro semplice
trasposizione dalla televisione alla carta. Perché è nel ritrovarle
tutte lì, l’una accanto all’altra, che si capisce davvero quanto
resistente e tenace sia il filo che le lega.
In ognuna di queste conversazioni, ammesso che la distinzione sia
sempre agevole, si parla tanto di storia quanto di attualità. Del
resto, il presente ha sempre bisogno del passato: in quel che facciamo
oggi, che ci piaccia o no, manteniamo un dialogo costante con quello
che abbiamo fatto ieri, perché è l’unico modo che conosciamo per
immaginare un futuro (con tutte le distorsioni e le manipolazioni del
caso, s’intende). Vale per ciascuno di noi e vale allo stesso modo per
le nazioni, i partiti e ogni altro genere di comunità. Altrimenti,
semplicemente, non si capisce nulla. E (soprattutto) non si va da
nessuna parte.
Decretare la fine della storia o imbalsamarla in un mausoleo,
pertanto, sono solo due modi diversi e perfettamente speculari di
derubarci: non del passato, ma del futuro. Di derubarci, per prima
cosa, del diritto inalienabile a immaginarlo e a progettarlo, il
nostro futuro. E io penso invece che proprio questo dovremmo
ricominciare a fare, e che proprio per questo sia utile – non giusto,
non doveroso, non edificante – ripartire da questi splendidi
ottantenni. Per riconquistarci il diritto e ritrovare la capacità di
pensare il futuro, e di pensarlo insieme. Procedendo a tentoni, per
prove ed errori, con il massimo della cautela e con il minimo della
presunzione possibili, si capisce. Con piena consapevolezza di tutti i
limiti e di tutti i rischi di un simile tentativo, ci mancherebbe. Ma
a modo nostro.

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